Dopo la liberazione di una volontaria italiana rapita in Kenya e tenuta in ostaggio in Somalia da un gruppo di terroristi si è acceso il dibattito sul tema del pagamento di un eventuale riscatto. Ma come funziona nei principali Paesi europei e come si muovono, in casi analoghi, gli Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone?
La vicenda del rilascio di Silvia Romano, la cooperante italiana di 24 anni rapita nel 2018 mentre svolgeva la sua attività di educatrice in un orfanotrofio in Kenya, ha acceso (per lo meno in Italia) il dibattito sul tema del pagamento dei riscatti in caso di rapimento da parte di bande armate o di milizie terroristiche.
La vicenda della volontaria italiana
Milanese, laureata in Mediazione linguistica nel febbraio del 2018, a qualche mese dalla laurea al Centro di Intermediazione Linguistica Europea Silvia Romano decide di partire per il Kenya per conto di una Onlus come educatrice in un orfanotrofio a Likoni – nella prima periferia di Mombasa – e poi a Chakama.
Il 20 novembre dello stesso anno viene rapita durante un attacco armato e di lei, inizialmente, si perdono le tracce.
Verso la fine del 2019 viene confermata la notizia che la cooperante, seppur sempre prigioniera, è stata trasferita in Somalia (dopo un viaggio in parte a piedi e in parte in moto) dal gruppo terroristico integralista Al-Shabaab che controlla parti del territorio somalo.
Confermato anche dalle autorità italiane che l’obiettivo (cosa non ancora avvenuta invece per altri casi) del rapimento era proprio legato al pagamento di un riscatto con il fine di “finanziare” le attività militari del gruppo legato ad Al Quaeda. Pagamento che però non sarebbe stato confermato.
Nell’estate dello scorso anno Al-Shabaab si sarebbe poi messo in contatto con l’Aise (i servizi segreti italiani per l’estero), inviando un video della 24enne e dando quindi il via ai negoziati per il rilascio insieme alle forze di polizia somale e ai servizi segreti turchi (MiT) che, è bene ricordarlo, sono ben inseriti nel panorama del Corno d’Africa.
Sabato 9 maggio è giunta in Italia la notizia della scarcerazione della ragazza con il relativo rientro a Roma il giorno seguente con un volo governativo direttamente da Mogadiscio, capitale della Somalia.
E’ stato pagato un riscatto?
L’opinione pubblica, all’indomani del rientro in Italia della volontaria, si è interrogata sull’eventualità che dietro alla sua liberazione ci fosse anche il pagamento di un riscatto.
Ovviamente, sia dal Governo che dagli stessi servizi segreti, nessuna conferma è arrivata così come non è stata smentita l’ipotesi.
Una vicenda sulla quale, in ogni caso, non ci sarebbe nulla di cui discutere considerato che l’obiettivo dell’impegno dell’intelligence esterna italiana è proprio quello di riportare in patria (possibilmente sani e salvi) i connazionali che, loro malgrado, si trovino in situazioni di pericolo per la propria vita.
Scontato quindi il silenzio nel quale operatori, intermediari e rappresentanti diplomatici hanno lavorato nella gestione di questa (e anche altre) vicenda.
In ogni caso il ministro degli Affari esteri Luigi Di Maio, ha dichiarato di non essere a conoscenza del pagamento di alcun riscatto nei confronti dei terroristi di Al-Shabaab.
Come funziona negli altri Paesi
Negli ultimi vent’anni l’escalation di episodi in cui gli Stati (e l’Italia ha diversi episodi eclatanti) si trovano a dover gestire il rapimento di imprenditori, cooperanti, giornalisti, turisti, membri delle Forze armate o personale sanitario ha raggiunto livelli certamente preoccupanti.
Soprattutto in zone di guerra – basti pensare ai cittadini occidentali rapiti in Iraq o in Siria – piuttosto che in zone di difficile “controllo” del fenomeno delle azioni terroristiche come appunto alcune regioni del Corno d’Africa, decine sono stati gli ostaggi rapiti da milizie di fondamentalisti islamici.
Ma il nodo della vicenda è legato a come i singoli Stati, di cui i rapiti hanno la cittadinanza, agiscono per cercare di riportare in patria il connazionale che si trova nelle mani di bande, gruppi organizzati o associazioni criminali autoctone (ma non necessariamente, infatti la 24enne italiana è stata rapita in Kenya per volontà di un gruppo somalo) del posto.
Spagna, Germania, Italia e Francia
Ogni Paese attua una strategia propria per gestire i rapimenti da parte di gruppi terroristici organizzati. Spagna, Germania e Italia, per l’appunto, attuano una “soft strategy” che si conclude nella quasi totalità delle volte con il pagamento di un riscatto.
Questo è possibile anche grazie all’apporto di Paesi terzi, nella vicenda di Silvia Romano ad esempio della Turchia, e dei servizi segreti di Governi più “presenti” in particolari aree specie del continente africano e del Medio Oriente.
La Repubblica francese, invece, utilizza (e non ne ha mai fatto mistero) una tecnica che alterna il pagamento dei riscatti a blitz e azioni militari dei servizi di intelligence in terra straniera. Come accadde, ad esempio, nel maggio 2019 quando due ostaggi francesi furono liberati dalle forze speciali di Parigi dopo un blitz in Burkina Faso.
Durante l’operazione, portata avanti anche grazie al supporto delle truppe americane, due militari francesi persero la vita.
Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna
Stati Uniti e Regno Unito utilizzano invece, salvo casi particolari, la politica del “no concessions“. Letteralmente “nessuna concessione”. No categorico e tassativo a riscatti, richieste e compromessi con i terroristi.
Sia Londra che Washington non “scendono a patti” col nemico di turno, spesso preferendo azioni militari vere e proprie che, di contrasto, possono mettere seriamente a rischio la vita del rapito (e anche degli attori stessi del blitz).
Come dimenticare il famoso “non trattiamo” del premier britannico Margaret Thatcher nel 1980 quando diede il via all’Operazione Nimrod per liberare l’ambasciata iraniana a Londra assediata da 6 terroristi. Operazione che costò la vita a due dei quasi 30 ostaggi.
Ben diverso, invece, il caso dello “scambio di prigionieri” attuato soprattutto dagli Stati Uniti quando nella vicenda non sono coinvolti ostaggi, ma cittadini esteri detenuti (in maniera più o meno legale) dalle autorità locali.
A maggior ragione quando invece è coinvolto del personale militare. In questo caso la Casa Bianca, spesso e volentieri, si muove proprio attraverso uno scambio dei detenuti reclusi.
Questa politica è stata colta al balzo anche dall’attuale presidente Donald Trump. Un modus operandi che però ha scatenato l’opinione pubblica finendo per evidenziare come questi “scambi” possano trasformarsi in preziosi escamotage a favore dei regimi che pretendono la liberazione di uomini (spesso anche terroristi) detenuti su territorio statunitense.
Anche il “pacifico” Giappone nella stragrande maggioranza dei casi preferisce non pagare alcun riscatto. Una scelta che, in più occasioni, ha avuto un tragico epilogo per i rapiti.
Nel 2015, Haruna Yukawa e il giornalista Kenji Goto persero la vita dopo che il Governo di Tokyo rispose “no” al pagamento di un riscatto e non diede il via (la stessa Costituzione giapponese lo vieta) ad una azione militare preventiva nei confronti delle milizie dello Stato islamico in Siria.
Quanto è lecito pagare un riscatto?
La domanda che in molti, specie tra i banchi della politica, si fanno in questi giorni è proprio quella legata all’opportunità del pagamento di un riscatto.
In Italia, solo nell’ultimo anno, sono stati tre i casi di rilascio di connazionali rapiti. Il padovano Luca Tacchetto (liberato in Mali e rapito in Burkina Faso), Alessandro Sandrini di Brescia, liberato nel maggio del 2019 dopo quasi tre anni di prigionia e nell’aprile del 2019 in Turchia fu la volta di Sergio Zanotti.
In tutti i casi il Governo non confermò mai il pagamento di cifre alle milizie, nonostante alcuni dei protagonisti confermarono in più occasioni di essere stati liberati dopo una transazione.
Ma quindi, bisogna o meno pagare un riscatto? Dipende. Dipende dal contesto geopolitico in cui il rapimento avviene, dipende dalla “forza negoziale” che il Governo può avere con un determinato Paese (magari ostile), dipende anche e sopratutto dall’interlocutore.
Va da sé che trattare con un gruppo terroristico di stampo fondamentalista non è certamente una cosa semplice. E a pagare le conseguenze di una scelta sbagliata (o ancora peggio, azzardata) sarà sempre e solo l’ostaggio.
Il vero punto è, e resterà, legato al “valore della vita umana”. Anche se fosse stata spesa una qualunque cifra è bene ricordare che una nostra connazionale al termine di questa dolorosa vicenda è però tornata a casa. E lo ha fatto sulle sue gambe e di questo dobbiamo solo esserne felici.
(foto in copertina © Governo Italiano)
di Omar Porro