La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Quali sono le implicazioni e le conseguenze di questa erronea definizione che non è solo un tecnicismo giuridico, ma un approccio politico al conflitto.
Nonostante il conflitto siriano non sia più da anni una guerra civile, è questa la definizione più comune, tanto nel discorso mediatico quanto in quello politico, data erroneamente al conflitto. Quello che ad una lettura superficiale può sembrare una questione lessico-giuridica, in realtà nasconde delle implicazioni significative.
Non a caso il primo articolo di questa rubrica dedicata alla Siria riguardava proprio le origini e le fasi del conflitto, fasi tra le quali la guerra civile è stata, sorprendentemente, quella più breve. Dal punto di vista giuridico, la guerra civile è un conflitto armato interno a uno Stato combattuto tra quello Stato e uno o più gruppi armati irregolari (oppure tra gruppi armati non statali), dove a contrapporsi sono i cittadini di quello stesso Stato (definizione della Treccani). In altre parole, nel caso specifico, siriani contro siriani. Basta però dare una rapida occhiata al conflitto in corso per capire che i combattenti siriani, siano essi delle forze armate regolari o dei ribelli, non sono affatto gli unici a fronteggiarsi.
Come concluso anche dalla Commissione di Inchiesta ONU sulla Siria (rapporto A/HRC/21/50), la fase di guerra civile c’è stata tra la fine di luglio 2011, quando per difendere le manifestazioni di piazza queste vennero affiancate da una opposizione armata, il Free Syrian Army (FSA), e il 2012. In questo periodo i requisiti giuridici per la sussistenza di una guerra civile c’erano.
Ma dal 2012 le cose sono mutate radicalmente, sia tra il fronte ribelle che tra il fronte governativo. Da un lato, il primo ha subito infiltrazioni esterne che hanno portato alla diversificazione esponenziale di brigate e fazioni di diverso indirizzo politico e religioso, fino alla comparsa di gruppi estremisti come Nusra (sebbene il fronte ribelle resti in prevalenza composto da siriani e le componenti straniere siano poi tendenzialmente confluite nell’ISIS); dall’altro il coinvolgimento di soldati e milizie di Stati terzi a sostengo delle truppe regolari siriane (tra l’altro decimate da diserzioni e morti), si è fatto sempre più diretto e diversificato portando a quello che oggi è un ampio “fronte governativo” fatto di milizie libanesi di Hezbollah, truppe e reparti speciali russi, iraniani e milizie di mercenari afghani (la brigata più nota di mercenari afghani è la Fatemiyoun), pakistani (la brigata pakistana più nota è la Zainabiyoun) e iracheni assoldati dall’Iran. La maggior parte degli afghani appartiene alla minoranza sciita degli Hazara che ha trovato rifugio in Iran: in cambio di uno stipendio mensile e della cittadinanza iraniana, sono stati trasferiti in Siria al fianco delle forze siriane. In questo ampio fronte la componente siriana è, paradossalmente, minoritaria e addirittura, secondo dei documenti, i comandi iraniani avrebbero il diretto controllo di alcune milizie siriane.
Senza contare il fronte dell’ISIS, costituito in prevalenza da combattenti non siriani provenienti da decine di Paesi stranieri, compresi Paesi europei, e il fronte della Coalizione Internazionale, che sebbene non impegnata con truppe di terra, vede una sessantina di Paesi coinvolti, alcuni impegnati in attacchi aerei, come USA, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Australia, Canada, Giordania, Marocco, Arabia Saudita, Qatar, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, altri impegnati a fornire sostegno militare e logistico, come Germania, Italia e Spagna.
Per una aggiornata mappatura di tutte le fazioni in campo si rimanda a questo lavoro certosino della piattaforma di giornalismo investigativo Bellingcat, con dettagliatissime infografiche.
Basta dunque guardare alle innumerevoli nazionalità ed eserciti di Paesi terzi impegnati a vario titolo nel conflitto per capire che non si tratta più di una guerra civile. Il conflitto siriano appare quello che nella prassi (pur non ancora codificata) si definisce “guerra per procura”, proxy war, o conflitto “internazionalizzato”, in quanto oltre alla belligeranza tra fronte governativo e ribelli, esiste un conflitto tra Coalizione e ISIS, tra Turchia e milizie curde YPG, tra ribelli e ISIS, occasionali bombardamenti aerei israeliani a obiettivi militari in territorio siriano e finora due operazioni militari statunitensi contro obiettivi militari siriani (il bombardamento alla base aerea di al Shayrat, nella provincia di Homs, dopo l’attacco chimico su Idlib, e il recente abbattimento di un aereo siriano che stava a sua volta bombardando le milizie curde YPG sostenute dalla Coalizione Internazionale).
Perché allora continuare a definirlo erroneamente come guerra civile? Forse per semplificazione, ma l’eccessiva semplificazione porta a una distorsione del reale che ha delle inevitabili conseguenze. Definire infatti un conflitto come “guerra civile” tradisce un approccio e una strategia di framing, di impostazione, di quel conflitto di stampo politico.
Il concetto può essere ben riassunto nelle parole di Yassin Swehat, giornalista siriano che nel documentario “Ecos del Desgarro” (minuto 42:20) sostiene che la locuzione guerra civile “edulcora ciò che accade in Siria, riducendo una sollevazione popolare contro una tirannia a una guerra settaria dove ci sono solo dei cattivi”, in quanto enfatizza il carattere interno e settario del conflitto, facendolo apparire come una lotta fratricida dove i siriani si massacrano a vicenda senza che nessuno possa farci nulla. Secondo Swehat, questo fa sì che non ci sia “un dovere morale nel proteggere la popolazione civile, ma una guerra civile in cui una soluzione politica deve essere trovata a ogni costo”. Il costo è ignorare le cause profonde che hanno portato al conflitto, lasciandole immutate.
Un framing di questo tipo infatti ignora le origini del conflitto, nato come proteste di piazza represse nel sangue dal regime degli Assad, dove sin dal marzo 2011 sono stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità contro i civili ancora prima che nascesse l’FSA, e ignora le pesanti responsabilità dei Paesi terzi coinvolti, siano essi Russia, Iran o i Paesi della Coalizione Internazionale anti-ISIS (nonché ISIS stesso, che come visto è una forza a composizione straniera), creando un senso generale di de-responsabilizzazione che giova indubbiamente al regime siriano e ai suoi alleati, ma anche agli USA, all’Unione Europea e più in generale alla comunità internazionale.
La generale assenza dal 2011 ad oggi di forme concrete di protezione della popolazione civile dalle atrocità del conflitto trova quindi una sorta di giustificazione nella definizione di “guerra civile”, che è un conflitto interno, quindi non di competenza di Paesi terzi, e rende quasi più accettabile il fallimento clamoroso della comunità internazionale nel far valere in questi 6 anni anche le più basilari regole del diritto internazionale.
L’erronea definizione del confitto siriano come “guerra civile” non è solo dunque solo un tecnicismo giuridico: è anche e soprattutto un approccio strumentale al conflitto e alle sue vittime.
di Samantha Falciatori