Da giugno del 2014 il prezzo del greggio è stato in continuo calo e l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) ha vissuto un periodo complicato, almeno fino a quando il 30 novembre scorso, a Vienna, non si è trovato un accordo per riequilibrare la produzione globale.
Persino gli economisti stimavano che il mondo avrebbe dovuto abituarsi a un prezzo del petrolio stabilmente intorno ai 40 dollari al barile. Tra le ragioni del calo oltre all’influenza dei mercati sostanzialmente a condizionare la situazione era la basilare legge economica del rapporto tra domanda e offerta:
- Dal lato dell’offerta il boom del “petrolio di scisto” delle grandi miniere statunitensi ha aumentato notevolmente la quantità di petrolio circolante;
- Dal lato della domanda ad influire è stata la frenata delle economie in via di sviluppo, in particolare di quella cinese e quella indiana, che hanno ridotto la richiesta di materie prime energetiche;
- Un ulteriore indebolimento è stato causato dalla fiacca ripresa europea e dal progresso delle stesse che oggi utilizzano i carburanti fossili sempre più efficientemente.
L’Opec attraverso degli accordi sulla produzione, applica delle politiche di prezzo, alzando o riducendo i prezzi del greggio. L’egemonia dell’Arabia Saudita nell’Organizzazione ha permesso di seguire dal 2015, una politica di libero mercato, volta ad evitare tagli alla produzione, così da mantenere quote di mercato con l’obiettivo di rendere meno conveniente ai produttori americani investire sul costoso petrolio di scisto. Le società americane che sono riuscite a rimanere a galla hanno tagliato i costi e reso la produzione sempre più efficiente, aspettando con speranza che i prezzi sarebbero tornati presto a salire, mentre altri produttori hanno fermato fermato temporaneamente le estrazioni.
In realtà la politica dei prezzi bassi decisa dall’Arabia Saudita ha creato qualche problema di bilancio alle monarchie del Golfo Persico, che ricavano gran parte delle proprie entrate dai profitti sulla vendita di petrolio. In particolare l’Arabia Saudita si è trovata a dover affrontare un deficit di quasi 100miliardi di dollari. Ciò ha comportato un calo delle riserve di dollari nel Paese del 16% tra il 2015 e il 2016. Una situazione che non era più sostenibile.
Inoltre, con l’annullamento da parte degli Stati Uniti delle sanzioni internazionali che da 9 anni limitavano fortemente le esportazioni energetiche dell’Iran, il mercato del petrolio ha dovuto accogliere gradualmente i 500mila barili al giorno prodotti dalla Repubblica islamica, un “eccesso” di offerta e quindi un nuovo calo del prezzo. Una situazione che per gran parte dell’anno scorso ha visto una gara fra gli esportatori a chi vendeva più barili, anche a costo di tagliare (e in alcuni casi quasi azzerare) i margini di guadagno per non perdere le proprie quote di mercato.
Questa situazione ha portato ad una intesa a febbraio, seguita da riunioni controproducenti, tra cui quella a Doha, in Qatar che venne organizzata per risolvere il problema del calo sceso del 60% rispetto alla metà del 2014 (l’accordo fallì a causa dell’Iran). L’obiettivo era limitare la produzione per far risalire il prezzo. L’accordo è saltato anche per l’opposizione dell’Arabia Saudita, dovuta alle tensioni politiche con l’Iran – i due paesi sostengono fazioni opposte sia nella guerra civile siriana e sia in quella nello Yemen.
I delegati dell’Arabia Saudita chiesero che anche l’Iran fosse tra i firmatari dell’accordo. l’Iran, che non era rappresentato nella riunione perché volutamente assente, ha sempre rifiutato di limitare la sua produzione, ora che poteva nuovamente esportare e guadagnare quote di mercato, e aveva fatto ufficialmente sapere che non avrebbe aderito a nessun piano finché non sarebbe riuscita a recuperare il livello di produzione precedente all’inizio delle sanzioni.
Si legge inoltre in quei giorni sul sito del Corriere della Sera che: “I paesi esportatori hanno perduto centinaia di miliardi di dollari. Per compensare i deficit di bilancio hanno attivato misure di austerità che ora cominciano a generare conseguenze a livello sociale. Non a caso in concomitanza con l’incontro Opec di Doha sono entrati in sciopero alcune migliaia di addetti del settore petrolifero del Kuwait. Il paese, quarto produttore tra i paesi Opec, [per fronteggiare i disagi del prezzo del petrolio] ha ridotto gli stipendi di chi lavora nel settore.”
Il 28 settembre 2016, dopo 8 anni, l’Opec ha trovato un accordo per ridurre la produzione. La decisione “preliminare”, presa ad Algeri, segna tra le altre cose un cambio di strategia dell’Arabia Saudita, che ha fermato l’esperimento di “libero mercato” iniziato nel 2014. Inoltre l’Iran sembra per la prima volta indicare una crescente posizione di dominio nei vertici del gruppo, perché l’accordo le permette di aumentare la produzione a circa 3,8 milioni di barili al giorno. Senz’altro una vittoria per il Paese degli ayatollah.
Le stime sulla domanda e l’offerta del petrolio fatte dall’Opec mostrano che nel 2017 sarà impossibile diminuire le eccedenze petrolifere senza una cooperazione con paesi che non fanno parte dell’organizzazione, come per esempio la Russia, che è il più grande esportatore energetico al mondo fuori dall’Opec. Ma l’accordo che è stato poi raggiunto a Vienna, superando il disaccordo tra i tre maggiori paesi produttori del gruppo (Arabia Saudita, Iran e Iraq), è stato più ampio del previsto dal momento che ne ha fatto parte anche la, Russia che ha accettato i tagli (anche Mosca ha sofferto sul bilancio il peso del crollo dei prezzi).
La durata di questa tendenza dipenderà dal rispetto degli accordi da parte dei paesi membri dell’Opec rispetteranno gli accordi presi. Secondo alcune previsione di Forex i fattori che potrebbero minare alla stabilità di questo accordo saranno proprio quei fattori che l’hanno già influenzata in passato: la situazione fiscale dei paesi dell’Organizzazione; il ritorno sul mercato del petrolio di scisto; la crescita (eventuale) della domanda cinese e indiana.
Il gruppo di produttori Opec, insieme ad altri 11 paesi non-Opec, stanno ora cercando di ridurre l’offerta di circa 1,8 milioni di barili al giorno. I tagli sono effettivamente entrati in vigore il 1 gennaio e dureranno fino a giugno. L’Arabia Saudita ha già fatto sapere attraverso il proprio Ministro dell’energia Khalid al-Falih che non sarà necessario aggiornare o prolungare l’accordo sulle riduzioni della produzione per più di sei mesi.
Gli analisti sono comunque consapevoli che predire dove si stabilizzerà il prezzo del petrolio sarà impossibile, soprattutto in un anno pieno di eventi in grado di aumentare l’instabilità internazionale.
di Roberto del Latte