Lo scorso 1° dicembre il Premio Sacharov è stato conferito a due attiviste yazide, sopravvissute all’inferno dell’ISIS. Noi di Zeppelin siamo andati alla cerimonia di premiazione al Parlamento europeo e vi raccontiamo la battaglia di queste donne coraggiose.
Sono Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, le due giovani yazide vincitrici del Premio Sacharov 2016, il prestigioso riconoscimento che il Parlamento europeo conferisce ogni anno, dal 1988, a quelle persone che si distinguono nella lotta per i diritti umani e le libertà fondamentali. Sopravvissute alla schiavitù sessuale del sedicente “stato islamico”, Nadia e Lamiya sono da allora portavoce delle donne vittime di ISIS e di una campagna di sensibilizzazione sulla tragica condizione della comunità yazida, una minoranza religiosa di etnia curda diffusa in Iraq, nella regione dello Sinjar.
Con il conferimento del Premio Sacharov – dedicato allo scienziato e dissidente sovietico Andrei Sakharov – il Parlamento europeo riconosce e sostiene l’impegno di queste donne nella difesa e promozione dei diritti umani.
La storia di Nadia (21 anni) e Lamiya (18 anni) è simile a quella di centinaia di altre donne yazide: entrambe originarie di Kocho, nel nord dell’Iraq, entrambe rapite dai miliziani di ISIS il 3 agosto 2014, quando la città fu conquistata. Come da rituale, uomini e donne anziane, inutili per fini sessuali, furono giustiziati, mentre donne e bambini furono rapiti: le prime ridotte in schiavitù sessuale e vendute; i secondi indottrinati, addestrati e reclutati.
Nadia e Lamiya hanno sperimentato sulla propria pelle le atrocità di ISIS, gli stupri, le torture, le umiliazioni, e le punizioni per i tentativi di fuga e la loro battaglia è ora raccontarle al mondo intero. Nel dicembre 2015, Nadia Murad è stata ospite al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove ha raccontato i suoi tre mesi di prigionia, di come gli uomini del “califfato” fecero irruzione in casa sua, uccidendo la madre e i sei fratelli, e di come la portarono a Mosul, dove fu violentata, picchiata, venduta ad un uomo che, al suo rifiuto di convertirsi all’Islam, la torturò, e di come fallirono i suoi tentativi di fuga, puniti con lo stupro di gruppo.
Nadia è riuscita a fuggire nel novembre 2014, e nel settembre 2016 è diventata ambasciatrice dell’Onudc per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Lamiya Aji Bashar è invece rimasta in mano a ISIS più a lungo di Nadia, ma ha subito le stesse atrocità: ha tentato la fuga quattro volte e ogni volta è stata punita con terribili stupri e torture. Solo al quinto tentativo è riuscita a fuggire, ma nella fuga è rimasta vittima di una mina, che l’ha sfigurata e lasciata cieca dell’occhio destro.
Queste due giovani donne incarnano il dolore di una intera comunità, vittima di quello che la Commissione indipendente d’inchiesta sulla Siria ha definito un genocidio. Nel 2014 la leadership di ISIS divulgava un manuale in cui istruiva i suoi miliziani su come trattare le schiave sessuali, e nel gennaio 2015 veniva emessa una fatwa in cui venivano snocciolate ancor più nel dettaglio le condotte autorizzate e quelle non autorizzate, partendo dal presupposto che le schiave sono vere e proprie proprietà di cui un miliziano jihadista può disporre a suo piacimento.
Le ragazze vengono fatte salire su degli autobus con i finestrini coperti da tendine, per evitare che da fuori si vedano donne non velate, smistate in grossi edifici e poi vendute in appositi mercati come bestiame, con addosso le etichette del prezzo; possono essere rivendute finché non restano incinta: in quel caso, secondo il manuale, il proprietario non può più rivenderle.
I manuali permettono anche il rapporto sessuale con bambine in età prepuberale, se queste sono fisicamente “adatte”: si hanno prove di schiave sessuali di 9 anni. Non sono però solo i manuali a garantire una gestione capillare del fenomeno: vi è anche una sofisticata burocrazia che gestisce i mercati sessuali, le compravendite, le cessioni delle schiave in dono, per cui ogni transazione viene scrupolosamente certificata. Esistono anche dei certificati di emancipazione, con cui un proprietario può concedere libertà alla propria schiava. È un provvedimento piuttosto raro, adottato nel caso in cui un miliziano decida di liberare la propria schiava prima di una missione suicida. In caso contrario, la schiava viene ceduta come eredità o donata ad altri miliziani. Per queste donne, l’unica via di salvezza è la fuga. O la morte. Ma anche quando riescono a scappare, il loro calvario non termina.
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Nelle comunità yazide è proibito il matrimonio interreligioso e lo stupro è uno stigma.
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Nelle comunità yazide è proibito il matrimonio interreligioso e lo stupro è uno stigma. Le sopravvissute che tornano alle proprie comunità vengono spesso sottoposte a traumatici test di verginità dalle autorità irachene, per dimostrare di essere state abusate, in una spirale di umiliazioni cui le giovani tentano di porre fine con la chirurgia, per riparare l’onta subita o, in casi estremi, con il suicidio.
È anche per questo che la violenza sessuale sulle donne yazide è la cartina di tornasole della politica di annientamento che ISIS applica alla minoranza yazida: la donna diventa lo strumento di annientamento fisico, morale e religioso di una intera comunità.
Si stima che siano tra le 3.500 e le 5.000 le donne yazide ancora in mano all’ISIS, vittime di una fitta rete di atrocità giustificate in nome di una religione che non ha nulla a che vedere con simili orrori. Nel 2015 oltre 70.000 leader musulmani hanno firmato una fatwa che condanna il terrorismo e denuncia che i miliziani del Califfo non sono veri musulmani: nessuna religione può giustificare simili atrocità.
di Samantha Falciatori