La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Mentre il fronte governativo riguadagna terreno, le potenze alleate isolano sempre più i ribelli, accettando che Assad resti al potere. Che scenari si aprono?
Gli importanti sviluppi militari del conflitto siriano in corso in queste settimane, che abbiamo visto nella prima parte di questo Siria Report, sono stati accompagnati anche da significativi avanzamenti a livello politico. Infatti le recenti riconquiste verso la Siria centrale e orientale del fronte governativo pongono il regime siriano in posizione di forza e di potere contrattuale, grazie non solo al decisivo supporto dei suoi alleati, ma anche alla rimodulazione degli interessi dei suoi avversari.
Gli Stati Uniti sono concentrati contro l’ISIS, la Turchia contro l’YPG e l’Arabia Saudita sulla crisi con il Qatar, tanto che ad un vertice tenutosi a fine agosto nella capitale saudita ai leader dell’opposizione siriana è stato espressamente detto dal ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, che Riyadh si sarebbe disimpegnata dalla guerra in Siria.
Stessa cosa che hanno fatto gli Stati Uniti quando Trump ha interrotto il programma di addestramento dei ribelli, decisione presa anche dal Regno Unito che, seppur in sordina, ha ritirato i suoi consiglieri militari che nell’est della Siria stavano addestrando i ribelli contro ISIS. Potrebbe essere la fine del “Nuovo Esercito Siriano”; alla lista dei Paesi che stanno “abbandonando” i ribelli si aggiunge anche la Giordania, che ha come priorità la protezione dei propri confini e la necessità di fermare il flusso dei rifugiati, per cui una normalizzazione dei rapporti con Damasco non solo è necessaria ma è stata già avviata.
Sebbene la Francia continui a sostenere che Assad non potrà far parte del futuro politico della Siria, gli altri Paesi hanno smesso di dichiararlo pubblicamente. Tra questi il Regno Unito, che ha smesso di invocare la deposizione di Assad a favore di una soluzione più pragmatica, dato che dal punto di vista militare le fazioni ribelli più moderate sono state ridotte a un ruolo marginale, così come lo è stato l’organo politico dell’opposizione.
Boris Johnson, Segretario di Stato per gli Affari Esteri britannico, ha dichiarato che non solo Assad resterà al potere, ma che potrebbe anche concorrere alle elezioni del 2021. Per dirla più chiaramente, secondo un’altra fonte diplomatica:
È difficile immaginare una futura Siria stabile e pacifica con Assad ancora al potere, considerando quanti danni ha causato. Ma che rimanga o meno al potere, non è più una precondizione alle trattative”.
È in effetti difficile immaginare un futuro sereno per la Siria. Ciò è chiaro non solo dalla realtà sul terreno e dai milioni di rifugiati sparsi per il mondo che con Assad al potere non rientreranno in patria, ma anche nelle parole di Assad, che in un discorso pubblico del 20 agosto ha affermato:
È vero che la Siria ha perso i suoi giovani e le sue infrastrutture, ma ha vinto una società più sana e omogenea.”
Questa posizione la dice lunga sull’idea che il regime ha della Siria, ossia una realtà omogenea in cui non ci sia spazio per le differenze, per il dissenso, per la libertà di espressione – elementi mai stati costitutivi del regime; oggi, dopo 7 anni di guerra, milioni di profughi e mezzo milione di morti, queste parole appaiono ancora più sinistre, perché significa che nella Siria di domani non ci sarà posto per nessuno che non sostenga il regime, né per la pluralità né per una convivenza pacifica tra etnie e comunità. È il trionfo della pulizia etnica che il fronte governativo persegue dal 2016 (e che avevamo raccontato qui).
Inoltre, considerando che il territorio governativo è pesantemente occupato da russi, iraniani, libanesi di Hezbollah e mercenari afghani (brigata Fatimiyun) e pakistani (brigata Zeinabiyoun) che si sono insediati nelle ex aree sunnite (come avevamo analizzato qui), l’omogeneità di cui parla Bashar al Assad appare alquanto ambigua ed è indicatore del fatto che le vittorie del regime sono state rese possibile solo dal sostegno straniero. Imporre infatti al potere milizie sciite fortemente settarie e vendicative in territori sunniti, rischia di replicare la catena di abusi e violenze che ha caratterizzato per anni lo scenario iracheno, dove dopo la caduta di Saddam il potere sciita ha perpetrato gravi violenze contro la parte sunnita finendo con l’alimentare il fenomeno ISIS. Imporre alla popolazione siriana, per lo più sunnita, un potere repressivo, settario e in parte straniero rischia di far continuare le violenze e far precipitare di nuovo la situazione, perché significherebbe anche ignorare le cause profonde che nel 2011 hanno spinto in piazza milioni di siriani, che chiedevano riforme, diritti e libertà contro una dittatura al potere da 50 anni. Imporre di nuovo con la forza delle armi e della realpolitik quella dittatura a una popolazione stremata da sette anni di guerra rischia di far risaltare in aria la polveriera.
Non bisogna poi dimenticare che la Siria non è più un Paese unitario: da un lato c’è un proto-Kurdistan che rivendica l’indipendenza e dall’altro ci sono sempre più marcate aree di influenza straniera, come avevamo visto qui; Russia, Iran e Stati Uniti stanno costruendo basi militari in Siria e, secondo fonti israeliane, l’Iran starebbe costruendo anche fabbriche di missili sia in Libano che in Siria, una minaccia che il premier Netanyahu non ha esitato a definire inaccettabile e foriera di gravi conseguenze.
Il 14 e 15 settembre si terrà un altro round di colloqui ad Astana, dove Russia, Iran e Turchia discuteranno la gestione delle aree di de-conflitto, i luoghi dove dispiegare le loro truppe e il futuro di Efrin. Quest’ultimo nodo è cruciale perché da esso dipenderanno le prossime operazioni militari: la priorità per la Turchia è impedire che l’YPG colleghi Efrin al resto del Rojava per formare un Kurdistan lungo i suoi confini, mentre per il fronte governativo sembra prioritario riconquistare la provincia di Idlib, sui cui cieli sono ripresi i voli di ricognizione, preludio forse di una ripresa dei bombardamenti. A luglio qualcuno parlava addirittura di una possibile proposta turca alla Russia riguardante uno scambio “Efrin per Idlib”.
Difficile prevedere come si evolveranno le cose sul terreno, ma di fatto la Siria resta una complessa scacchiera di interessi e compromessi e il suo futuro resta quanto mai incerto. Viene però da chiedersi se una vittoria militare del regime, in un Paese diviso e occupato da forze straniere, dove regnano impunità e crimini contro l’umanità, possa davvero risolvere il conflitto.
di Samantha Falciatori