Di Marta Furlan
A un mese dall’accordo turco-israeliano e dall’arrivo dei primi aiuti turchi a Gaza, resta aperto e dibattuto il quesito su quale sia il futuro della Striscia e sulle sue effettive possibilità di recupero economico nonostante un regime di blocco che Israele non è intenzionata a modificare.
In seguito all’accordo tra Tel Aviv e Istanbul con il quale i due paesi hanno ricucito i rapporti bilaterali dopo sei anni di gelo, a inizio luglio un carico di aiuti provenienti dalla Turchia ha raggiunto Gaza. Tra le richieste turche al momento dell’accordo, infatti, figurava la fine del blocco navale imposto dal governo israeliano ai danni della Striscia. Senonché, tra i punti fermi di Israele figurava il netto rifiuto di apportare qualsiasi significativo cambiamento del regime di blocco che vige su Gaza. Pertanto, un compromesso era necessario e questo è stato trovato nel via libera per la Turchia di inviare a Gaza aiuti umanitari attraverso il porto israeliano di Ashdod, dove ogni carico diretto alla Striscia viene ispezionato da Israele prima che possa raggiungere la propria destinazione. In virtù di tale accordo, quindi, il 3 luglio il vascello Lady Layla ha raggiunto Ashdod e da lì Gaza City, dove ha trasferito 11 tonnellate di aiuti umanitari – tra cui cibo, vestiti, giocattoli, prodotti per l’igiene personale e altri beni di prima necessità. Una volta giunti a Gaza, gli aiuti sono stati posti nelle mani del Ministero degli Affari Sociali, incaricato di distribuire il 75% di tutti gli aiuti ricevuti alle 75,000 famiglie più bisognose che vivono di sussidi (il restante 25% è invece amministrato dalla Palestinian Red Crescent).
Nelle parole di Etimad al-Tarshawi (Segretario Generale della Pianificazione e dello Sviluppo all’interno del sopra citato Ministero), tali aiuti -sebbene siano solo una parte dei beni di cui Gaza ha bisogno- sono estremamente importanti per le famiglie che li ricevono, in quanto aiutano a far fronte ad una situazione economica disperata. Dal giugno 2007, infatti, quando Hamas ha ottenuto il controllo amministrativo di Gaza, Israele ha imposto severe restrizioni alla circolazione di beni e persone a e dalla Striscia. La politica israeliana –giustificata dal governo come misura necessaria ad evitare il rischio che armi vengano trasferite ad Hamas e che militanti estremisti possano entrare in territorio israeliano e minacciare la sicurezza del paese- non è servita a indebolire il gruppo, che continua infatti ad amministrare la Striscia e a godere di ampio supporto popolare attraverso i servizi pubblici a cui provvede. Al contrario, la politica israeliana ha avuto l’unico effetto di ostacolare ogni possibilità di sviluppo economico per la Striscia, andando così a creare le basi per un fiorente mercato nero che avvantaggia esclusivamente coloro che gestiscono le reti di contrabbando e condanna alla povertà più estrema la popolazione civile. A seguito della politica israeliana, infatti, i quasi 2 milioni di civili presenti a Gaza sono confinati entro i limiti della Striscia, impossibilitati a spostarsi per cercare lavoro altrove, privi a volte dei mezzi di sussistenza necessari a sopravvivere. Inoltre, a causa del blocco, case, scuole, ospedali, così come impianti elettrici e idrici e reti di telecomunicazione distrutti nel 2014 durante l’ultimo conflitto, non sono ancora stati ricostruiti.
In base alle stime ONU, se tale situazione non dovesse cambiare nel breve periodo, entro il 2020 il territorio di Gaza diventerebbe “uninhabitable”. Simili voci di avvertimento, inoltre, sono recentemente provenute anche da parte della Banca Mondiale, che ha definito l’economia di Gaza “on the verge of collapse”. Alla luce di questa situazione economica è evidente come gli aiuti provenienti dalla Turchia siano fondamentali per Gaza e i suoi abitanti. Ciononostante, l’accordo Turchia-Israele (e in particolare la sezione relativa a Gaza) ha dato adito a reazioni discordanti da parte Palestinese.
Da un lato, ci sono coloro –come al-Tarshawi- che hanno sottolineato l’impatto positivo degli aiuti turchi per la popolazione civile e che hanno espresso la necessità e la speranza che la Turchia continui la propria politica di supporto resa possibile dal recente accordo. In questo gruppo si colloca anche Hamas, che ha presentato l’accordo come punto di svolta capace di portare la Turchia a giocare un ruolo più attivo nel premere su Israele per una sospensione definitiva del blocco. Dall’altro lato, invece, ci sono coloro che criticano i termini dell’accordo, definendolo non solo insufficiente ma anche contro-produttivo in termini di sospensione del blocco. Quello che molti tra civili e analisti politici stanziati a Gaza sostengono, infatti, è che l’accordo manca di riconoscere la sostanziale differenza tra embargo e blocco e che la sua efficacia è limitata esclusivamente al primo. Per quanto riguarda il secondo, infatti, l’accordo ha il proprio limite principale nel fatto che si limita a garantire il trasferimento di aiuti umanitari alla Striscia ma non garantisce l’apertura della stessa all’ economia internazionale, rischiando in questo modo di cristallizzare il blocco anziché spianare la strada alla sua abolizione. Tale posizione mette in luce un elemento importante: nonostante l’innegabile importanza degli aiuti umanitari per una zona del Levante dove il livello di disoccupazione è uno dei più alti al mondo, quello che serve davvero a Gaza sono progetti di sviluppo che ne possano rivitalizzare l’economia. È necessario un approccio di lungo periodo e di più largo respiro, capace –attraverso iniziative e programmi di sviluppo in loco– di dare a Gaza una propria struttura economica e alla popolazione palestinese lì residente possibilità di lavoro e di autosufficienza. In assenza di alternative e in un contesto socio-economico fatto di alienazione, bassa istruzione, disoccupazione, e mancanza di contatti diretti con il mondo esterno, gruppi politico-religiosi radicali e gruppi votati al terrorismo di matrice jihadista, potrebbero facilmente sfruttare la disperazione dei giovani di Gaza per ottenere sostegno e reclute.
Una situazione di questo tipo non andrebbe a vantaggio di nessuno: non servirebbe gli interessi di Gaza, né della sua popolazione, né di Hamas, e non servirebbe neppure gli interessi di Israele e Egitto –i fautori e sostenitori del blocco. Con la Striscia radicalizzata ed esposta al rischio della proliferazione terroristica, infatti, Israele si troverebbe ad avere ai propri confini una minaccia alla sicurezza – ben più seria di quella che, secondo la retorica del governo israeliano, esisterebbe se a Gaza fosse effettivamente consentito di avere una propria economia e di mantenere relazioni economiche, commerciali e finanziare con il mondo esterno. Simile discorso si applica al caso egiziano: se una Gaza mantenuta forzatamente isolata diventasse teatro operativo di gruppi estremisti votati a violenza e terrorismo, il Sinai sarebbe infatti esposto a una minaccia diretta alla propria sicurezza e stabilità, e dalla penisola sinaitica (che già costituisce la regione di maggiore volatilità e di più difficile controllo per il Cairo) la minaccia si estenderebbe rapidamente al resto dell’Egitto. Tuttavia, all’interno dell’establishment israeliano tale realtà è riconosciuta apertamente solo da pochi, quali il General Maggiore H. Halevi. Questi ha difatti sottolineato come “se non ci sarà un miglioramento [delle condizioni di vita a Gaza], Israele sarà la prima a pagarne il prezzo” e ha messo in guardia il Knesset su come la ricostruzione di Gaza sia di fatto il modo migliore per prevenire in futuro un’altra guerra come quella del 2014.
È dunque compito della comunità internazionale utilizzare le leve politiche, diplomatiche ed economiche a propria disposizione per convincere Israele che mantenere Gaza in una condizione di sottosviluppo economico non è nel proprio interesse ed è, al contrario, un gioco pericoloso per la sicurezza nazionale israeliana; ed è la stessa comunità internazionale che potrebbe spingere Israele a includere nella distensione dei rapporti con la Turchia anche la cancellazione definitiva del blocco e l’Egitto di al-Sisi a modificare la propria politica di supporto al blocco.