La sospensione dello stato di diritto, la grave crisi economica, le proteste dei cittadini e la repressione violenta del regime stanno corrodendo dalle fondamenta la società venezuelana. Quanto potrà ancora resistere il Presidente Nicolàs Maduro?
Poco prima di morire, agli inizi del 2013, Hugo Chávez indicò come successore il suo delfino Nicolás Maduro, che sconfitto il rivale Capriles alle elezioni dello stesso anno, divenne il Presidente del Venezuela. Da allora il paese è permanentemente in crisi, una crisi non solo economica, ma politica e sociale.
Le opposizioni vengono ridotte al silenzio, la violenza è endemica e scarseggiano ormai da anni, beni di prima necessità per una popolazione di circa 29 milioni di abitanti. Tra il 2015 e il 2016 circa 77milla venezuelani hanno varcato i confini con il Brasile alla ricerca di cibo o medicinali e aumenta il numero dei richiedenti asilo.
Nessuno si sorprese quando nell’ottobre del 2016, la presidente del Consiglio Elettorale Nazionale Tibisay Lucena, senza fornire alcuna spiegazione, rimandò a data da destinarsi le elezioni regionali, che si sarebbero dovute tenere entro la fine dello stesso anno. Nei mesi successivi all’annuncio, la società di consulenza Hercon arrivò a stabilire, tramite uno studio, che il 71,3% del popolo venezuelano riteneva che Maduro “avesse paura” di affrontare le elezioni regionali.
Timore o no Maduro le evitò e l’opposizione nel frattempo continuò la sua battaglia per far dimettere il Presidente. I nemici del regime dentro al Parlamento sono riuniti nella MUD (Mesa de Unidad Democrática). L’Assemblea Nazionale è presieduta dal deputato Julio Borges, capo della coalizione.
La situazione degenera il 30 marzo 2017 quando il Tribunale Supremo di Giustizia assume i poteri legislativi dell’Assemblea nazionale (controllata dall’opposizione) con l’avallo della Corte Suprema venezuelana: si stabilisce che sino a quando persisterà all’interno dell’Assemblea uno “stato di ribellione e oltraggio” nei riguardi del Presidente, le competenze parlamentari legislative saranno esercitate direttamente dalla suprema Corte affinché possa essere garantito lo stato di diritto. Non solo le opposizioni nel paese, ma anche gli stati latinoamericani, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno duramente criticato la decisione.
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Julio Borges grida al colpo di stato e sollecita le forze armate a schierarsi contro un’azione ritenuta un attacco alla democrazia. In poco più di tre mesi sono morte un centinaio di persone negli scontri tra forze di sicurezza e manifestanti.
Il 27 giugno un gruppo di militari ha preso l’iniziativa e ha tentato di “sovvertire” la dittatura madurista con un “attacco-farsa” al Palazzo della Corte Suprema. L’offensiva è iniziata con il lancio di granate (inesplose) da un elicottero della polizia sull’edificio. Più che effetti distruttivi concreti, l’idea era quella di colpire simbolicamente i giudici che, con i loro provvedimenti, continuano ad aiutare il Presidente Maduro a restare al potere. Anche se su questo “attacco” esistono diverse teorie: Maduro dice che è stata la CIA, mentre altri sostengono sia stata una messa in scena poco studiata attuata dallo stesso Presidente.
In seguito, il poliziotto che ha eseguito l’operazione – Óscar Pérez, che è anche un attore part-time – ha diffuso un video abbastanza singolare sui suoi social network, dove si appella all’articolo 350 della Costituzione venezuelana che permette ai cittadini di autoproclamarsi disobbedienti civili di fronte alle politiche repressive. Il video è poi stato rimosso. Il pronunciamiento si configura come una chiamata ai Venezuelani affinché si ribellino al “il governo transitorio e criminale”. Il fine ultimo, a detta del suo annuncio, è ristabilire l’ordine costituzionale infranto da Maduro dopo la decisione di bloccare il processo elettivo dei governatori dello scorso dicembre.
Il 5 luglio quattro parlamentari dell’opposizione sono rimasti feriti all’interno delle mura del Congresso, a causa dell’incursione di un gruppo di sostenitori del Presidente, che armati di spranghe di metallo e bastoni di legno, hanno interrotto l’assemblea riunita in sessione speciale per ricordare il giorno dell’indipendenza del paese. Il commento di Armando Arias rilasciato dall’interno dell’ambulanza dove veniva medicato per una ferita alla testa è stato: questo non mi addolora più di quanto non lo faccia vedere scomparire giorno dopo giorno il nostro paese.
Il primo funzionario pubblico di una certa rilevanza a prendere ufficialmente le distanze dal regime è stata Luisa Ortega Díaz. La procuratrice, anch’essa chavista e grande sostenitrice della Rivoluzione bolivariana, ha annunciato di essere contraria alle politiche del suo Presidente.
In tutta risposta i conti correnti le sono stati congelati e le è stata negata la possibilità di lasciare il paese “per il presunto coinvolgimento in gravi illeciti nell’esercizio delle sue funzioni”. Lei allora si è rivolta alla commissione inter americana per la tutela dei diritti dell’uomo. Riluttante nell’accettare modifiche alla Carta Costituzionale del 1999, si è detta anche pronta a morire per questa.
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Il 4 luglio la Ortega si è recata in aula di fronte ai giudici ed è stata coinvolta in uno scontro aperto con il deputato chavista Pedro Carreño, che l’ha accusata di non essersi occupata in questi mesi di tutte le aggressioni che ha subito il Presidente. Gli attacchi personali non sono mancati. È stata definita “bipolare”, “propiziatrice di anarchia”, “bugiarda” e “manipolatrice”. Il suo difensore ha chiesto l’assoluzione, ma — come scrive El Periódico — “la sua sorte sembra già scritta”. Nel frattempo il Tribunale Supremo di Giustizia ha designato la nuova procuratrice generale aggiunta, Katherine Harrington. Luisa Ortega Díaz, durante un’intervista, si è difesa affermando di non aver commesso né crimini né errori. Ha esplicitato, inoltre, la sua contrarietà nel volersi sottomettere a questo “tribunale incostituzionale e illegittimo”. Maduro in un intervento pubblico ha dichiarato di voler combattere con le armi tutti i nemici della Rivoluzione.
A sostenere il Presidente, c’è un intellettuale di spicco della sinistra chavista Atilio Borón che ha suggerito a Maduro il metodo per schiacciare l’opposizione ovvero riunire tutte le forze armate e “procedere all’energica difesa dell’ordine istituzionale”. Va ricordato che l’«ordine» di cui parla Borón non ha legittimità né popolare né costituzionale, da quando Maduro ha cancellato ogni tipo di consultazione e contestualmente ha indetto arbitrariamente una consulta per la riforma della Costituzione.
Un altro esponente politico contrario al regime che ha subito, in parte, lo stesso destino della Ortega è Henrique Capriles del partito Primero Justicia (PJ). Avvocato e politico venezuelano, si presenta come l’alternativa liberale e socialdemocratica del Paese. Nato a Caracas nel 1972, dopo vari incarichi politici rilevanti, si candida alla Presidenza della Repubblica nel 2012, scontrandosi con Hugo Chávez. Perde con il 44,9% dei voti. Dopo la morte di Chávez avvenuta nel 2013, Capriles si ricandida. Il suo avversario è Maduro. Perde nuovamente, ottenendo il 49,07% dei voti.
Queste ultime elezioni sono state riconosciute irregolari da vari centri di analisi elettorale (deputati al controllo delle pratiche democratiche). Capriles ha iniziato una lunga serie di proteste per le quali è stato condannato a una interdizione dai pubblici uffici di quindici anni. Per questa decisione il governo madurista è stato criticato e condannato duramente dalla comunità internazionale.
L’alleato più radicale di Capriles è Leopoldo López, capo di Voluntad Popular, che è stato giudicato dalla giustizia venezuelana come colpevole di aver pubblicamente incitato alla violenza durante le manifestazioni del 2014, dove morirono decine di persone. La sentenza è caduta come un macigno su López: 13 anni, 9 mesi, 7 giorni e 12 ore di prigione.
Tra coloro che hanno denunciato la detenzione arbitraria di Lopez e altri 69 oppositori politici a seguito delle proteste di piazza iniziate nel febbraio 2014 c’è Zeid Ra’ad Al Hussein, l’Alto Commisario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Amnesty International e Human Rights Watch. L’8 luglio del 2017 viene data notizia della liberazione di Leopoldo López, che dovrà però rimanere agli arresti domiciliari. Ci si interroga rispetto alle motivazioni per le quali uno dei principali nemici del governo sia stato liberato.
Secondo l’analista Luis Vicente León: “la scarcerazione punterebbe a decomprimere lo scenario, nel quale il governo soffre per un alto livello di discredito per la repressione contro i manifestanti”.
Anche la Chiesa venezuelana ha preso posizione. Nel mese di maggio la Conferenza Episcopale Venezuelana ha rotto definitivamente i rapporti con Maduro. Con un comunicato, la CEV – equivalente dell’italiana CEI – ha dichiarato che la convocazione di un’Assemblea Costituente “non è necessaria e risulta pericolosa per la democrazia venezuelana, per lo sviluppo umano nel suo complesso e per la pace sociale”.
Papa Francesco, dopo aver ricevuto la CEV in Vaticano, ha rilasciato una dichiarazione con la quale ha stabilito che i rapporti con il Paese potranno ricominciare solo se si realizzeranno quattro condizioni: “l’apertura di un canale umanitario, la presentazione di un calendario generale di elezioni, il rispetto dell’autonomia dell’Assemblea Nazionale e la liberazione dei detenuti per cause politiche”.
Il nemico più imprevedibile per il regime restano però gli studenti. Nel corso delle ultime proteste gli arresti sono arrivati a sessantadue. Questi giovani sono “vittime dell’inflazione e della povertà”. Il regime riserva a questa opposizione di strada un trattamento particolare, tanto che i metodi di repressione adottati dalla Guardia Nacional Bolivariana variano dalla tortura all’assassinio, come testimonia questo filmato in cui un manifestante viene freddato a bruciapelo da un membro della polizia.
Compañeros de José David Vallenilla tratan de protegerlo de la arremetida de disparos de la GNB pic.twitter.com/5WTDRmhthE
— @AereoMeteo (@AereoMeteo) 22 giugno 2017
Sono ancora in pochi a credere che Maduro possa uscire indenne dalla situazione in cui si è trascinato: gli appoggi internazionali sono sempre meno e il sostegno interno è ai minimi termini. La presa del regime chavista sullo stato venezuelano potrebbe essere vicina alla fine.
Di Mario Mirabile e Eliza Ungaro