In Turchia la riforma costituzionale voluta dal Presidente Erdogan è stata approvata, ma il paese è diviso e numerose sono le denunce di irregolarità.
La Turchia è diventata una Repubblica presidenziale. Il 51,4% della popolazione votante ha deciso di approvare la riforma costituzionale promossa dal Presidente Recep Tayyip Erdogan che ora sarà anche il capo del governo e potrà nominare sei dei tredici giudici dell’Alto Consiglio, la maggioranza di quelli della Corte Costituzionale, ed emanare decreti aventi forza di legge senza che gli stessi siano soggetti al controllo parlamentare o giurisdizionale.
Vengono accolti 18 emendamenti alla costituzione turca del 1982, viene abolita la carica del Primo ministro sostituita da un Presidente esecutivo che non deve più essere al di sopra delle parti, ma può essere membro e leader di un partito. A lui sarà attribuito il potere di nominare e revocare ministri e di sciogliere il parlamento. Erdogan con questa riforma potrebbe restare al potere sino al 2029, qualora riuscisse a vincere le elezioni nel 2019, visto che il conteggio dei mandati – che rimangono della durata di 5 anni per un massimo di 2 mandati – non è stato modificato.
Il Sì ha vinto con 1,25 milioni di voti in più rispetto ai contrari. Nella capitale Ankara No si è attestato al 51,1%. Numeri simili si sono registrati a Istanbul, mentre a Izmir (Smirne) e Dyarbakir (la cosìdetta capitale del Kurdistan turco) il No ha sfiorato il 70%.
La vittoria del sì è stata confermata verso le 23:30 di domenica 16 aprile da Sadi Güven, capo del Consiglio elettorale supremo turco (YSK), un organismo preposto a supervisionare i processi consultivi nel paese, e subito contestato dalle opposizioni per la decisione presa all’ultimo minuto dal Consiglio stesso di considerare valide le buste elettorali prive dei timbri istituzionali.
Secondo le opposizioni, questa violazione permetterebbe di mettere in discussione il risultato della votazione dato che come dichiarato dal deputato repubblicano Erdal Aksünger era compito dell’YSK assicurarsi che tutto fosse pronto per il regolare svolgimento della consultazione.
Sin dalle prime ore del mattino si sono susseguite le lamentele (tra cui una dell’AKP) di chi denunciava la presenza di una gran quantità di buste non timbrate presso i seggi sparsi nel paese: così l’YSK ha deciso, prima che i risultati venissero inseriti nel sistema (e con il consenso di esponenti dei partiti presenti ai seggi), di includere nei conteggi anche i voti contenuti nelle buste prive dei timbri di convalida.
Meral Akşener, fiera sostenitrice del No all’interno del partito Nazionalista (MHP), ha gridato allo scandalo ai microfoni di Fox Tv. Con lei hanno protestato alcuni esponenti del HDP curdo – quelli ancora in libertà e non in prigione -, oltre al deputato repubblicano Kemal Kilicdaroglu, che durante una conferenza stampa ha messo in dubbio l’autorità legale del Consiglio.
Tra le irregolarità che si sono registrate nel corso della giornata di ieri va segnalata anche la scomparsa del sito del Consiglio superiore elettorale turco che aggiornava in tempo reale circa i risultati. Il sito è andato misteriosamente offline quando il numero delle schede scrutinate ha raggiunto il 70%; da quel momento sino all’annuncio dell’esito referendario è stata l’agenzia di stato Anadolu ad aggiornare i dati.
Ci vorranno una decina di giorni prima che arrivino i numeri definitivi. I principali partiti delle opposizioni hanno dichiarato che chiederanno il riconteggio del 37% dei voti (circa 2,5 milioni).
La modifica costituzionale, sulla carta, accorderà poteri speciali a chi vincerà le Presidenziali del 2019, ma di fatto, legittima lo strapotere esercitato da Erdogan negli ultimi anni confermando uno status quo allarmante.
I molti turchi residenti all’estero hanno in maggioranza sostenuto la riforma di Erdogan (tranne quelli residenti in Svizzera). Qualche giorno fa Daniele Santoro su Limes rilevava come l’atteggiamento di alcuni leader europei – tra tutti il Primo ministro olandese Mark Rutte sia stato d’aiuto alla realizzazione delle ambizioni presidenziali di Erdogan. In diversi paesi europei è stato vietato a politici turchi di fare campagna elettorale per il Sì, mentre è stato concesso spazio ai sostenitori del No.
E non si tratta di eterogenesi dei fini quanto piuttosto della solita mancata lungimiranza, dato i turchi residenti in Europa hanno partecipato in massa a questa consultazione anche in risposta all’ingerenza dimostrata da diversi governi europei.
Erdogan sarà ricordato come il Presidente più influente e potente della storia repubblicana dopo Mustafa Kemal. In meno di 20 anni, facendo tesoro degli errori di chi prima di lui ci aveva provato è riuscito ad assestare i colpi necessari a invalidare una tradizione – quella kemalista – che nel paese si credeva (a torto) intramontabile.
Mustafa Kemal era un uomo che credeva nel potere delle idee; le sue, erano visionarie e radicali. Tra queste vale la pena di ricordare quella che ha trasceso le immediate circostanze in cui è stata introdotta per rimanere rilevante in diversi contesti e per diverse generazioni. Potrebbe essere riassunta così:
“turchi volete essere musulmani? Basta che siate rigorosamente sunniti e a casa vostra, di certo non a scuola; tuttavia non dimenticatevi che potete essere anche europei, ed è giusto che lo siate.”
Lungo tutto l’arco della sua vita esortò i turchi a sentirsi pienamente europei, tale era la convinzione che, nonostante l’Islam, fosse quella la civiltà di appartenenza. Tutta la sua azione politica fu orientata alla costruzione di uno Stato che potesse interloquire alla pari con le potenze europee, cosa peraltro avvenuta ripetutamente quando egli era in vita; la sua rivoluzione rigettò le basi religiose della legittimità politica, in favore della secolarizzazione delle istituzioni e delle élite al potere.
Il grado di profondità di alcuni dei cambiamenti introdotti dalle riforme di Mustafa Kemal però non bastò. Una parte della popolazione turca subì prima la pervasività della rivoluzione culturale modernizzatrice promossa attraverso misure radicali e, quando necessario, imposte con la forza; poi subì l’autoritarismo di chi nei decenni successivi si incaricò di proteggere quello stato secolare che poteva guardare a occidente, salvaguardando l’indipendenza e il regime repubblicano da qualsiasi minaccia. Oggi queste persone sono rappresentate da Erdogan e motivano il successo di Erdogan.
Il kemalismo inteso dai militari e dall’establishment repubblicano, oggi archiviato definitivamente da Erdogan, ha continuato a considerare il Leviatano più importante dei suoi cittadini – cosa che si era resa necessaria nella fase di transizione dall’Impero allo Stato, “dove la concentrazione di potere risultava di per sé un riduttore della complessità perché permetteva alle diverse anime etniche e culturali di restare unite all’interno della neonata Repubblica” (La Turchia secondo Erdogan, Limes, 10/2016)
A partire dal 1980 però il kemalismo si trasformò in un’ideologia intransigente che deviò completamente dal proposito originario di un’azione dinamica che si auto-correggesse in base al mutare degli scenari e dei contesti, e realizzò un regime di sicurezza. Un regime autoritario in perenne rotta di collisione con la democrazia mai pienamente realizzata, che in Turchia ha da sempre rappresentato un gioco d’azzardo pericoloso.
I continui successi di Erdogan materializzano l’incubo europeo di dover assistere all’affermarsi di democrazie “indigene” che rifiutano l’idea (supposta) universale di democrazia liberale. Nella demokrasi (come la chiama il Guardian) di Erdogan la popolarità del capo non viene intaccata dall’autoritarismo delle sue decisioni. E mentre l’Europa e l’America s’indignano e ricordano alla Turchia l’impegno a rispettare lo stato di diritto, Erdogan ci ricorda che il sistema politico modellato su schemi occidentali è un mezzo e non uno scopo: “la democrazia è un tram. Va avanti sino a quando lo vogliamo, noi poi scendiamo.”
Il Presidente a cui spetta il compito di accompagnare Ataturk nella tomba e lasciarlo riposare in pace (come peraltro il padre dei turchi avrebbe voluto) ha intenzioni meno nobili rispetto al suo predecessore illustre.
di Eliza Ungaro