Le proteste di inizio anno della comunità cattolica nei confronti del presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila, colpevole di voler rimandare a data indefinita le elezioni presidenziali, hanno riacceso l’interesse della stampa internazionale su un paese da sempre sottoposto alla maledizione delle risorse.
In uno dei suoi ultimi numeri l’Economist, la prestigiosa rivista inglese che si occupa di politica ed economia internazionale, ha dedicato copertina, editoriale e approfondimento alla complicata condizione della Repubblica Democratica del Congo (RDC). L’ex colonia belga sta rivivendo, per l’ennesima volta della sua storia, una situazione di tremenda difficoltà che è da ascrivere principalmente alla pessima gestione del clan Kabila negli ultimi venti anni.
In realtà Joseph Kabila, figlio di Laurent, che è stato presidente della RDC dal 1997 al 2001, non dovrebbe essere nemmeno più a capo del paese, avendo terminato il 20 dicembre 2016 il suo secondo mandato che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere l’ultimo. Il problema è che Kabila Jr. si ostina a rimandare continuamente la data delle elezioni, ricorrendo ad ogni tipo di escamotage.
The Economist not pulling any punches in its Congo coverage this week. pic.twitter.com/FzrtvMEbJc
— Aaron Ross (@aaronross6) 15 febbraio 2018
Per questo motivo sulla copertina dell’Economist campeggia la scritta “Heading back to hell”, l’editoriale titola “Africa’s great war reignites”, mentre l’articolo di dettaglio è molto più esplicito e parla di un “Waiting to erupt”.
La particolare situazione di gravità sottolineata da quest’ultimo titolo dovrebbe spingere la comunità internazionale ad agire, ed evitare che il vulcano Repubblica Democratica del Congo erutti davvero, con conseguenze poco rassicuranti per tutta l’Africa Centrale. La volontà di agire in fretta non è, però, uno dei principali requisiti della comunità internazionale, specie quando si parla di Africa, che è in parte già responsabile dell’attuale situazione del Congo.
Nel 1994 nessuno decise di impegnarsi diplomaticamente e militarmente nel vicino Ruanda, dove erano da tempo evidenti i segnali di quello che sarebbe stato uno degli atti più crudeli del Novecento: il genocidio dell’etnia Tutsi ad opera dei rivali dell’etnia Hutu.
La fine del conflitto civile ruandese, nel corso del quale venne ucciso quasi un milione di persone, portò gli sconfitti Hutu ad emigrare in massa verso il vicino Congo, determinando nel paese quell’instabilità che sarebbe sfociata nella “grande guerra africana” (1998-2003).
Solo allora la comunità internazionale decise di intervenire, istituendo quella che è, tuttora, la principale missione di peacekeeping dell’Onu, la MINUSCO, forte dei suoi diciottomila effettivi, molto criticata per la sua inefficacia e, da tempo, in via di riorganizzazione.
Il territorio congolese è infestato da gruppi di ribelli sostenuti dai paesi limitrofi, il cui scopo principale è quello di generare instabilità per rovesciare Kabila ed aumentare la propria influenza su questo gigante dai piedi d’argilla. Nella regione di Kivu, nell’est del paese, agiscono i ribelli delle Forces Democratique Alliées (ADF), sponsorizzati da Ruanda e Uganda, mentre nella regione di Kasai, nel sud del paese, ci sono una serie di milizie, sostenute dall’Angola, la principale delle quali è la Kamuina Nsapu.
Nel corso delle proteste sviluppatesi a seguito dei tentativi di Kabila di ritardare le elezioni, a emergere come forza eversiva è stata la Chiesa Cattolica che ha agito attraverso il Lay Coordination Committee of the Catholic Church (LCC), gruppo di coordinamento spirituale sostenuto da molti esponenti del clero congolese.
A partire dal dicembre del 2016, quando era chiaro che Kabila non avrebbe rispettato le scadenze elettorali, il CLC e i vari gruppi di opposizione politica hanno costretto il governo a firmare gli Accordi di San Silvestro, che prevedevano la nomina di un governo di unità nazionale diretto da un Primo ministro designato dall’opposizione, con l’incarico di organizzare le elezioni entro il dicembre 2017.
Il mancato rispetto di queste condizioni da parte di Kabila, favorito anche dalla morte del leader dell’opposizione Etienne Tshisekedi, ha convinto la popolazione cattolica a riversarsi per le strade per protestare: in due occasioni in particolare, il 31 dicembre 2017 ed il 21 gennaio 2018, la risposta delle forze di sicurezza congolesi è stata dura, conducendo alla morte di diversi manifestanti.
Il regime repressivo instaurato da Kabila non solo ha stimato al ribasso il numero delle vittime, atteggiamento molto diffuso tra i dittatori, ma ha cercato in tutti i modi di etichettarli come terroristi, mentre in realtà si trattava di gente comune, stanca delle angherie di un governo inefficiente ed inefficace.
I problemi recenti della Repubblica Democratica del Congo derivano sicuramente dalla sua storia, ma anche dalla geografia, essendo un paese immenso, pertanto difficile da controllare, nel cui sottosuolo si cela una quantità di ricchezze minerarie che non ha eguali nel resto del mondo conosciuto.
In particolare, la Repubblica Democratica del Congo riveste un’importanza fondamentale per lo sviluppo dell’industria tecnologica occidentale, pur rimanendo uno dei paesi più arretrati al mondo. Nel suo sottosuolo, infatti, vi sono i più grandi depositi di nickel, cobalto, litio, coltan ovvero tutti quei materiali fondamentali – terre rare – per la costruzione dei dispositivi tecnologici che dominano la nostra vita, divenuti ancora più importanti con la recente virata dell’industria automobilistica verso la produzione di macchine elettriche a batteria.
Nel corso dell’ultimo decennio, nella corsa allo sfruttamento delle enormi risorse congolesi, alle ex-potenze coloniali africane si è aggiunta la Cina, con la sua insaziabile fame di risorse, necessarie a sostenerne la crescita impetuosa.
Nella Repubblica Democratica del Congo viene estratto il 60% del cobalto mondiale, di cui il 90% finisce in Cina, paese che negli anni si è assicurato il dominio della filiera congolese del cobalto con diverse aziende, tra le quali la Congo DongFang International Minning, che fa pare di Zhejiang Huayou Cobalt, uno dei più grandi produttori di cobalto al mondo.
Tra miniere ufficiali e minatori improvvisati, si stima che siano oltre 100mila le persone impiegate che scavano con strumenti rudimentali, senza supervisione sanitaria e misure di sicurezza. Non c’è da stupirsi, allora, se nelle mani dei numerosi bambini soldato utilizzati nei numerosi conflitti etnici in corso nel paese, siano sempre più presenti armi e munizioni Made in China, da tempo il vero dominus della politica africana.
Danilo Giordano