Il 2017 sarà un anno pieno di eventi in grado di aumentare l’instabilità internazionale. Ci sono anche rischi la cui natura è radicalmente mutata rispetto ai decenni scorsi. È quindi utile provare a buttare l’occhio un po’ più in là, per sapere quello che ci aspetta e arrivare preparati.
“Disordine o disorientamento tumultuoso, confusione senza uguali”: è questa la definizione che viene data alla parola “caos” sui dizionari, ed è secondo molti, una condizione politica globale a cui ci dovremmo abituare (anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo dedicato all’argomento l’annuario cartaceo della Rivista).
I motivi che renderanno durevole questo stato di cose sono diversi, e hanno a che fare con riassestamenti sistemici di lungo periodo. In generale si possono individuare due macro-trend, da cui derivano più o meno direttamente le varie crisi internazionali.
In primo luogo, a pesare, c’è la perdita di potenza relativa dell’unica vera potenza dominante del sistema internazionale – gli Stati Uniti d’America – che, nonostante rimangano il Paese più potente e influente del mondo, stanno sperimentando l’erosione della propria supremazìa a causa dell’ascesa di altre potenze internazionali, nessuna delle quali, però, sembra in grado di essere o diventare “Paese guida” globale.
In secondo luogo, il diritto internazionale, e le organizzazioni che dovrebbero attuarlo, sembrano in seria difficoltà. Basti pensare all’Onu e alle sue propagazioni, sempre meno capaci di affievolire i conflitti e risolvere le crisi, sia per problemi strutturali di funzionamento interno, sia per una perdita di credibilità e autorevolezza internazionale (di recente abbiamo scritto della perdita di autorevolezza del Tribunale internazionale dell’Aja).
Siamo dunque in una fase di cambiamento, che non sappiamo dove condurrà. Il passaggio tra uno stato di un sistema ad un altro crea squilibri, crisi, instabilità, deflussi, finché il sistema stesso non trova il proprio “naturale” assestamento in un nuovo equilibrio.
Per i governi e le istituzioni internazionali, gestire queste fasi di passaggio può risultare molto complicato, poiché mancano punti di riferimento e, spesso, competenze in grado di leggere le evoluzioni e i mutamenti dei variegati contesti su cui si devono prendere decisioni.
In soccorso, arrivano agenzie e società di consulenza il cui lavoro dovrebbe, nelle intenzioni, fornire un quadro di lettura semplificato e schematico ai decision maker globali.
Bmi Research è una di queste agenzie di analisi, e mercoledì 12 ottobre ha rilasciato un interessante report intitolato “World of Worries: political Risk in 2017“, a firma di Yoel Sano.
Il report parla del 2017 come di un anno cruciale e ricco di eventi significativi (“Evenful Year“); tra gli altri, nel 2017 ci saranno insediamenti e appuntamenti elettorali in molti importanti Paesi.
In questo contesto viene rilevato, come primo fattore di rischio, l’ascesa di partiti populisti in molti Paesi sviluppati (“populismo” è in questo caso un termine incompleto per spiegare questa dinamica, ma per semplicità e brevità lo utilizzeremo, sapendo di sbagliare almeno in parte). Al riguardo, avevamo provato a fare una mappatura in questo articolo dei movimenti populisti, prendendo in considerazione soprattutto l’area europea e l’euroscetticismo, che spesso si accompagna al populismo e alle sue caratteristiche (semplificazione della realtà, fomentazione della rabbia popolare, l’utilizzo di verità alternative, menzogne e toni urlati per accarezzare l’elettorato).
Sano individua l’origine del successo dei partiti e dei leader populisti nel declino della classe media e nell’aumento della diseguaglianza tra gli strati sociali. Questi partiti, nonostante si facciano portatori e diffusori di quella che il The Economist ha definito la “verità post-fattuale”, sono riusciti, anche attraverso alla diffusione di numeri e dati falsi, ad attirare moltissimi consensi.
Impossibile in questo caso non pensare all’elefante nella stanza: la vittoria di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
Le elezioni negli Usa ci offrono un’ottima cartina tornasole sull’argomento (qui ci sono le nostre considerazioni sui risultati elettorali Usa). Secondo le analisi dei flussi elettorali si nota come Trump abbia ottenuto la vittoria (anche) grazie ai voti dei bianchi senza diploma di laurea residenti nelle zone (ex) industriali statunitensi. Sono quelle le fasce sociali maggiormente colpite dalle due crisi economiche che hanno colpito l’intero pianeta nel 2008-09 e l’Europa in particolare nel 2011-12.
Secondo il report, i partiti populisti sono riusciti a cambiare l’agenda politica dei governi dei paesi in cui militano, pur non avendo quasi mai ottenuto davvero il potere – non ancora, almeno.
Tra gli esempi citati a supporto di questa tesi c’è l’effettivo aumento – confermato dal World Trade Organization in un report pubblicato quest’estate e ripreso dal Financial Times – di misure protezionistiche in molte aree economiche, e la crescita, a livello globale, di movimenti nazionalisti; trend rilevato anche dal politologo George Friedman, che scrive
“The nation-state is reasserting itself as the primary vehicle of political life. Multinational institutions like the European Union and multilateral trade treaties are being challenged because they are seen by some as not being in the national interest.”
Anche se è presto per affermare con certezza che questa tendenza perdurerà nel tempo, i suoi effetti sono già misurabili.
Donald Trump si è più volte detto a favore di misure protezionistiche, anche se è ancora da vedere se quelle promesse potranno effettivamente tradursi in un programma di governo o diventeranno dimenticate promesse elettorali perse nel flusso delle notizie.
Per rimanere in un ambito europeo, basterebbe citare i casi dei trattati economici transatlantici con Stati Uniti (Ttip) e Canada (Ceta), le cui negoziazioni sono state interrotte e sospese a seguito di un accresciuto livello di ostilità da parte di alcuni paesi (il Ceta alla fine è stato firmato).
Se escludiamo le considerazioni geopolitiche che stanno dietro a questi trattati, un loro affossamento produrrà degli effetti nominalmente negativi sulla crescita globale, proprio quando – specie in Europa – anche qualche decimale di punto in più farebbe comodo e aiuterebbe la ripresa economica, che al momento è stagnante.
Secondo Bloomberg il perdurarsi di questa situazione di instabilità politica – con un aumento di rilevanza di partiti apertamente populisti ed euroscettici – avrà influenze economiche negative di vasta portata, se non si sarà in grado di arginarne gli effetti. Per la legge del contrappasso – hey, avete eletto Trump! – l’ascesa dei populismi è la seconda fonte di preoccupazione degli investitori americani in Europa.
Nel report Bmi – pubblicato prima dei risultati elettorali Usa – ci si concentrava, inevitabilmente, sulle elezioni americane. La candidatura di Trump nel partito Repubblicano viene definita come un effetto di quel trend “populista” globale già citato, che ha prodotto, tra le altre cose, anche il risultato della brexit britannica, con cui si possono rilevare alcuni parallelismi:
- populismo anti-establishment;
- sentimento anti-globalizzazione;
- istanze xenofobe;
- politiche para-identitarie.
Ed è proprio sulla questione brexit che il report Bmi si concentra subito dopo le elezioni americane, tra gli eventi del 2017 che potrebbero causare instabilità globale: il procedimento dovrebbe scattare nella prima metà dell’anno. Sui probabili effetti si è scritto già molto (tutto il contrario di tutto), ma al momento i fattori di rischio che vengono sottolineati sono:
- il deteriorarsi dei rapporti politico-economici tra Regno Unito e continente europeo, nel caso in cui le negoziazioni prendessero la strada definita “hard brexit“;
- un abbassamento delle stime di crescita economica e industriale inglese;
- probabili scompensi strutturali nel mondo finanziario, spiazzato dal risultato referendario;
- precedente politico che potrebbe “fare scuola” anche per i governi di altri paesi europei che, all’evenienza, potrebbero scaricare parte delle proprie responsabilità sull’Unione europea.
Tra le cose a cui prestare attenzione nel 2017, sempre secondo il report Bmi, ci sono le elezioni presidenziali francesi, che si svolgeranno tra aprile e maggio. La popolarità del Presidente Francois Hollande è ai minimi storici – intorno al 15%, un record negativo per la storia della presidenza francese, tanto che in un editoriale di Le Monde di qualche giorno fa si parlava di Hollande come di un “Sisifo che spinge sulla cima della montagna un masso che ricade ogni volta”.
Il Partito gollista (di centro-destra) farà le proprie primarie il prossimo mese, e Bmi vede come altamente probabile la nomina dell’ex Primo ministro Alain Juppé, mentre non è chiaro se quelle del Partito socialista si terranno o meno, e se Hollande si candiderà oppure si farà da parte. Da questa situazione di incertezza esce rafforzato il partito di estrema destra del Front National, guidato da Marine Le Pen, che secondo Bmi ha circa il 30% di probabilità di vittoria alle presidenziali – una percentuale spesso associata alla vittoria di Donald Trump alle elezioni americane.
Stessa importanza, in termini di rischi e incognite, viene riservata alle elezioni tedesche, che si terranno a settembre 2017. Gli argomenti chiave su cui si concentrerà la campagna elettorale in Germania, secondo Bmi, saranno simili a quelli che occuperanno la campagna elettorale francese, e cioè:
- sicurezza / terrorismo;
- immigrazione e temi identitari (secolarizzazione, integrazione, sovranità);
- riforme economiche;
Angela Merkel, leader del partito conservatore Cdu, oggi al governo in coalizione con l’Spd (il partito di centro-sinistra), rappresenta secondo Sano un “pilastro di stabilità per la Germania e per l’Europa”.
Ciò nonostante, la popolarità di Merkel ha visto negli ultimi mesi un sostanziale tracollo, dovuto più che altro alla scelta di attuare una politica di “porte aperte” nei confronti dei rifugiati di guerra, specialmente siriani. Anche se è improbabile che Merkel sia sconfitta alla prossima tornata elettorale, la sua posizione sarà sicuramente indebolita.
Naturalmente, l’emergere di movimenti populisti non è un fattore del tutto endogeno all’Unione europea, o agli Stati Uniti d’America. È un fenomeno globale, che si alimenta anche dalla condizione sistemica scatenata da altri fattori destabilizzanti, come ad esempio l’ascesa di Isis.
Mentre si sta consumando la battaglia per la riconquista della città di Mosul – più di 1milione di abitanti, seconda città dell’Iraq, la cui riconquista secondo gli analisti impiegherà mesi -, le prospettive di veder esaurire la minaccia portata dentro e fuori i confini “occidentali” del terrorismo islamista sono ben lontane. Questo nonostante “on-the-ground” Isis stia perdendo territori e capacità offensive.
È molto probabile, se non certo, che nel 2017 vi saranno ulteriori tentativi di attacchi terroristici da parte di cellule radicalizzate a danno dei paesi che oggi sono impegnati – più o meno efficacemente, con più o meno vigore – nella lotta contro il sedicente “stato islamico”.
La sconfitta eventuale di Isis non fermerà i sommovimenti che ne hanno favorito l’ascesa nel mondo musulmano (segnaliamo a tal proposito un lungo e emozionante reportage della rivista The Atlantic, uscito nel maggio scorso), e le loro inevitabili propaggini, che nel report vengono così individuate:
- aumento dell’ostilità delle popolazioni arabe-musulmane nei confronti della politica “occidentale” – dovuta anche in parte a motivi di carattere demografico, economico e di mobilità sociale;
- cristallizzazione di situazioni internazionali dove la mancanza di effettiva sovranità statale continuerà a favorire la proliferazioni di gruppi terroristici, come negli “stati falliti” di Libia, Yemen e Siria, ma anche in regioni come il Sahel e il Caucaso del nord, o in paesi come la Somalia, l’Afghanistan e il Pakistan;
- radicalizzazione delle seconde e terze generazioni di cittadini europei e occidentali di origine musulmana.
L’area mediorientale, inoltre, sarà interessata dal potenziamento della retorica neo-ottomana della Turchia. Se questo trend era già osservabile negli anni passati, il fallito di golpe tentato quest’estate da parte di alcune frange dell’esercito turco, ha velocizzato e radicalizzato un processo autoritario che oggi sembra inarrestabile. Secondo Bmi il prossimo anno sarà cruciale per capire quanto a fondo si spingeranno le aspirazioni di Erdogan in tutta la regione.
Ciò che al momento si può prospettare è che il Presidente turco tenterà di portare a termine l’ambita riforma costituzionale per accentrare il potere nelle sue mani, non avendo all’opposizione personalità abbastanza forti per contrastarlo (con la scusa del tentato golpe Erdogan ha arrestato molti oppositori, anche del tutto estranei al colpo di stato fallito).
L’accentramento di potere già in atto, avrà anche l’effetto di rafforzare il controllo sull’economia del Presidente Erdogan e renderà probabilmente più aspro lo scontro con i separatisti curdi del Pkk. A livello di politica estera il nuovo irredentismo turco sarà pieno di insidie: l’apparente allentamento delle tensioni con la Russia potrebbe terminare nel momento in cui le visioni strategiche dei due attori dovessero divergere in Siria (Erdogan supporta i ribelli sunniti, mentre Putin appoggia il regime alawita siriano).
Contemporaneamente, si stanno incrinando i rapporti tra Turchia e paesi Nato, sia per quel che riguarda la gestione della crisi migratoria, ma anche per la differenza di vedute sul futuro dell’area regionale del Kurdistan: sia i paesi Nato che la Russia vedono di buon grado il formarsi di una regione autonoma curda. La Turchia vede questa eventualità come la più grave minaccia alla propria sicurezza nazionale, tanto che divisioni turche sono già presenti nel nord dell’Iraq e della Siria con il tacito obiettivo di scongiurarla.
Questo schieramento di truppe, a seguito delle dichiarazioni critiche del Presidente turco nei confronti dei Trattati di Losanna (che hanno definito i confini della Turchia moderna), suonano come un campanello d’allarme per la stabilità della ragione, già messa a dura prova.
Oltre alle regione sopra analizzate, il report Bmi si sofferma anche in altre aree calde del pianeta. In particolare nell’Est europeo e nell’Est asiatico:
- l’Ucraina orientale, la cui situazione rimane volatile e possibile di un’improvvisa escalation;
- la Moldavia, che non riesce a trovare un equilibrio stabile tra Unione europea e Russia, creando situazioni di rischio criminale e geopolitico rilevanti;
- nella Regione baltica stanno aumentando le preoccupazioni nei confronti della politica russa, ritenuta sempre più minacciosa da Norvegia, Svezia, Finlandia, Lituania, Lettonia ed Estonia;
- l’aumento della tensione, anche militare, nel Mar Cinese Meridionale, con le rivendicazioni cinesi su ampi tratti di acque internazionali, che preoccupano i paesi costieri, molti dei quali alleati degli Stati Uniti d’America, e mettono in discussione la libertà di passaggio e commercio.
Un altro evento politico rilevante a livello globale nel 2017 sarà il 19° Congresso del Partito comunista cinese, che si terrà verso la fine dell’anno, e che selezionerà i leader della Cina da qui al 2022. Bmi ne parla come di un test per le scelte politiche e le strategie sostenute dal Presidente cinese Xi Jinping e del suo Primo ministro Li Keqiang, che vedranno per la prima volta entrare nell’arena politica cinese personalità della “6a generazione” del Partito comunista. Il maggior rischio insito in questa sessione congressuale potrebbe essere l’acuirsi della lotta di potere interna al Partito, con un accentramento del potere nelle mani del Presidente Xi Jinping.
Nel 2017 inoltre potremmo assistere a diversi rischiosi scenari di successione. Sono molti infatti i paesi più o meno autoritari i cui vertici sono anziani e in scarsa salute. Tra gli altri:
- Algeria – Abdelaziz Bouteflika (79)
- Angola – Eduardo dos Santos (74)
- Cambogia – Hun Sen (64)
- Camerun – Paul Biya (83)
- Cuba – Raul Castro (85)
- Guinea equatoriale – Teodoro Obiang (74)
- Eritrea – Isaias Afwerki (70)
- Iran – Ayatollah Ali Khamenei (77)
- Kazakhstan – Nursultan Nazarbayev (76)
- Oman – Sultano Qaboos (75)
- Arabia Saudita – Re Salman (80)
Thailandia – Re Bhumibol Adulyadej (88)deceduto: qui vi abbiamo raccontato le conseguenze e le prospettive- Zimbabwe – Robert Mugabe (92)
Ma quindi, c’è da preoccuparsi? Un po’, secondo questo schema riassuntivo:
Per concludere possiamo dire che la natura dei rischi, rispetto ai decenni scorsi, è mutata. La stessa percezione dei rischi risulta differente se guardata in ottica comparata rispetto al passato: canali all-news, social network e la frammentazione delle notizie online, amplificano le dimensioni percettive delle situazioni di rischio, alterando di conseguenza anche le reazioni e le risposte, nella speranza che queste risposte non creino le condizioni per quelle profezie auto-avveranti di cui al momento non abbiamo bisogno.
di Lorenzo Carota