La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Mentre il mondo arabo riabilita Assad, come cambia lo scacchiere siriano all’annuncio del ritiro USA dalla Siria?
Il 20 dicembre 2018 il presidente americano Trump ha annunciato il ritiro dalla Siria di 2.000 truppe americane a seguito di quella che ha definito “la sconfitta dell’ISIS” – anche se negli ultimi giorni si sono intensificati i bombardamenti aerei da parte degli stessi USA sulle postazioni ISIS nell’est della Siria.
Negli ultimi giorni il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton ha smentito le tempistiche annunciate dal presidente – che voleva un ritiro in 30 giorni – ed ha posto due condizioni necessarie affinché il ritiro si concretizzi: l’effettiva sconfitta di ISIS e sufficienti garanzie da parte turca sull’evitare un conflitto con i curdi.
Sebbene ci vorranno mesi per il ritiro – o forse anni, secondo il New York Times -, sia Brett McGurk, inviato americano della coalizione anti-ISIS, che Jim Mattis, Segretario della Difesa, si sono dimessi in disaccordo con la decisione di Trump, in quanto rischierebbe di peggiorare la situazione e replicare errori fatti in passato nel vicino Iraq.
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Innanzitutto perché priva le milizie curde dell’YPG che operano nel nord della Siria della protezione dell’alleato americano, lasciandoli scoperti a un possibile rastrellamento turco. Da mesi ormai Erdogan minaccia una nuova operazione nel nord per eliminare i curdi ed estendere la zona cuscinetto al di là dell’Eufrate.
Dopo l’annuncio di Trump, la Turchia ha infatti iniziato ad ammassare truppe e mezzi lungo il confine, spingendo l’YPG a chiedere l’aiuto del regime siriano che ha a sua volta inviato truppe verso la città di Manbij, roccaforte YPG.
Strappata all’ISIS nel 2016 e da allora in mano all’YPG con uno stazionamento di truppe americane, Manbij è divenuta il punto focale delle tensioni nel nord curdo della Siria, in quanto possibile apripista per l’espansione turca nell’area.
Il ritiro USA offrirebbe dunque alla Turchia una grossa opportunità, permettendole di eliminare la minaccia curda senza rischiare un confronto con truppe americane, rimuovendo al tempo stesso la causa primaria delle frizioni con Washington degli ultimi anni.
Tuttavia il vuoto territoriale che la Turchia dovrebbe colmare, combattendo al tempo stesso curdi e ultime sacche di ISIS, sarebbe troppo vasto e rischierebbe di portare a un confronto militare con il regime siriano, se non anche con i suoi alleati russi e iraniani. Come ha detto Soner Cagaptay, direttore del programma turco al Washington Institute: “Erdogan ha ottenuto più di quanto ha contrattato. Aveva chiesto agli Stati Uniti di abbandonare l’YPG, non di ritirarsi dalla Siria”.
John Bolton, Consigliere della Sicurezza Nazionale USA, è ad Ankara oggi – 8 gennaio 2019 – per concordare una strategia per il ritiro delle truppe americane ma non saranno trattative facili: secondo il quotidiano turco Hurriyet, la Turchia intende chiedere agli Stati Uniti di cedergli le basi nel nord della Siria o di distruggerle, mentre gli Stati Unti, come anticipato, vorrebbero garanzie a tutela dei curdi.
La posizione turca a riguardo però è chiara: in un Op-Ed pubblicato sul New York Times il 7 gennaio, Erdogan ha ribadito l’impegno a combattere “tutti i gruppi terroristi in Siria”, compreso quindi l’YPG.
L’annuncio di Trump è anche un segnale molto forte agli altri attori del conflitto siriano, in quanto sottolinea non solo la politica di disimpegno americano nell’area a favore della Russia ma anche la volontà di lasciare il regime siriano al potere.
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Non è un caso che nelle ultime settimane il processo di riabilitazione del regime di Assad si sia intensificato, soprattutto da parte dei Paesi arabi.
Il 16 dicembre Assad ha accolto a Damasco il presidente sudanese Omar al-Bashir, primo leader di un Paese della Lega araba a visitare la Siria dal 2011, e – lo ricordiamo – criminale di guerra su cui pende un mandato di arresto internazionale della Corte Penale dell’Aja per il genocidio nel Darfur.
Il 22 dicembre il consigliere per la sicurezza siriano, Ali Mamlouk – su cui pende un altro mandato di arresto internazionale per crimini di guerra in Siria – ha visitato l’Egitto, dopo la controversa visita dello scorso anno a Roma dove incontrò i servizi segreti italiani.
Inoltre, il 23 dicembre il re di Giordania ha dichiarato che “i nostri rapporti con la Siria torneranno come erano prima”, dopo la riapertura del confine giordano-siriano.
Gli EAU hanno riaperto l’ambasciata a Damasco il 27 dicembre, la Tunisia ha ripreso i voli diretti con la Siria dopo sette anni e il Bahrein ha dichiarato che “il lavoro presso la nostra ambasciata in Siria continua”.
Il tutto mentre la Lega Araba sta valutando di riammettere la Siria dopo la sua espulsione nel 2011 per la feroce repressione governativa delle manifestazioni del 2011.
Normalizzare i rapporti con Assad, senza ritenerlo responsabile delle atrocità di massa commesse in Siria dalle sue forze armate – di cui è capo supremo – significa perpetuare il conflitto, accettare quei crimini, e invia il chiaro messaggio che è possibile massacrare la propria popolazione e rimanere comunque membro (impunito) della comunità internazionale.
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Come scrive Mohammad al-Abdallah, direttore del Syrian Justice & Accountabilty Centre, non potrà esserci stabilità e pace in Siria finché i responsabili delle atrocità rimarranno al potere:
Molti dicono che la guerra è finita, ma non significa che la sofferenza e i crimini si siano fermati. Al contrario, il regime di Assad ha rafforzato la sua presa sulla popolazione, arrestando arbitrariamente, torturando e uccidendo. La giustizia non può essere sepolta sotto le rovine delle vittime”.
Non potrà esserci normalizzazione senza il rilascio dei detenuti, ricerche delle persone scomparse e l’abolizione della legge 10, che consente alle autorità di sequestrare le proprietà dei rifugiati senza processo o risarcimento.
In questo l’Unione europea ha un ruolo fondamentale per perseguire una giustizia internazionale ed evitare, come scrive Mohammad al-Abdallah, che “il regime siriano falsifichi la Storia spargendo sale sulle ferite e trasformando i criminali in eroi nazionali”. Altrimenti la Siria non sarà mai un posto sicuro per i milioni di rifugiati che l’hanno lasciata per salvarsi al vita.
di Samantha Falciatori