Iniziata con una serie di manifestazioni pacifiche per chiedere riforme e diritti, è diventata una delle guerre più sanguinose del secolo. E ora?
10 anni fa, il 15 marzo 2011, iniziarono in tutta la Siria proteste di piazza per chiedere riforme e diritti, sull’onda della Primavera Araba che in altri Paesi aveva portato alla fine di dittature decennali. La dura repressione del regime, le torture di massa, i massacri, la conseguente guerra civile – che presto si è trasformata in guerra regionale e guerra per procura – e il terrorismo hanno portato a un incubo che 10 anni dopo non vede ancora la fine.
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Il regime di Bashar al Assad è uscito vincitore dalla guerra militare, grazie al sostegno decisivo dei suoi alleati, Russia in primis, annientando i movimenti di opposizione e sfollando milioni di persone a causa della repressione e dei bombardamenti. Ha ripreso il controllo di gran parte del Paese, anche se la Turchia controlla fasce di territorio nel nord-ovest e gli Stati Uniti hanno una presenza nel nord-est, nelle aree curde.
A febbraio, la nuova amministrazione statunitense di Joe Biden ha effettuato un attacco aereo nell’est della Siria lungo il confine iracheno contro una struttura appartenente a una milizia sostenuta dall’Iran, come rappresaglia a un recente attacco a una base americana in Iraq e tra dicembre 2020 e marzo 2021 Israele ha intensificato i suoi attacchi aerei contro varie parti della Siria, in particolare l’est, colpendo obiettivi militari iraniani. Ciò di fatto dimostra quanto il regime sia ancora lontano dall’avere un saldo controllo del proprio Paese.
L’economia
Ma la sfida più grande di Assad ora è l’economia, che oltre a essere disastrata è pesantemente dominata dagli alleati. Russia e Iran infatti stanno rafforzando il loro potere economico in Siria, estendondo la loro influenza sulle risorse energetiche e sulle istituzioni finanziarie e industriali, firmando contratti a lungo termine con il regime siriano che garantiscono i loro interessi politici ed economici in Siria e che recuperano parte dei costi sostenuti durante gli anni per sostenere il regime. Cercando di dominare gli investimenti in molti settori, come petrolio, gas e ricostruzione, i due Paesi stanno di fatto controllando l’economia siriana.
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Inoltre, la corruzione, l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, una valuta al collasso, il peggioramento delle interruzioni di corrente e la carenza di benzina aggravano le difficoltà della popolazione e generano malcontento persino tra i più fedeli al regime. L’attenzione è spesso rivolta alle sanzioni internazionali di cui è oggetto il regime siriano, ma queste sono dirette a singoli individui del regime, colpiti perchè hanno avuto un ruolo nei crimini contro l’umanità commessi in Siria, e non sono una causa diretta né principale del collasso dell’economia siriana, anche perché riguardano settori molto specifici come quello delle armi, delle armi chimiche, dei beni di lusso e dei trasferimenti bancari dei soggetti colpiti.
Il processo politico
Nel frattempo, ogni tentativo di mediazione politica sotto l’egida ONU è naufragato di fronte all’ostracismo del regime che ora meno che mai ha interesse a una risoluzione politica. L’ultimo round di colloqui del Comitato Costituzionale tenutosi a fine gennaio 2021 si è infatti concluso con l’ennesimo stallo, generando la frustrazione pubblica dell’Inviato Speciale ONU per la Siria, Gier Pedersen, che ha dichiarato che “non è possibile continuare in questo modo”, ossia con mancanza di dialogo e con i tentativi della delegazione governativa di ostruzionismo, volti a discutere dettagli minori, tra cui la bandiera e l’inno nazionale, e a bloccare il processo pronunciando lunghi discorsi durante le sessioni per perdere tempo.
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A inizio febbraio 2021, nemmeno il Consiglio di sicurezza ONU è riuscito ad accordarsi su una dichiarazione congiunta, che avrebbe dovuto sbloccare lo stallo dei negoziati politici, a causa dell’opposizione della Russia, il che dimostra ancora una volta quanto il processo politico sia ostaggio degli attori del conflitto. A marzo 2021, Turchia, Russia e Qatar si sono riuniti per tentare una via alternativa lanciando delle consultazioni trilaterali per “discutere su come possiamo contribuire agli sforzi per una soluzione politica duratura in Siria”, come dichiarato dal Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu.
La giustizia internazionale
Nel frattempo, anche la giustizia internazionale ha mosso i primi importanti passi nell’affrontare una delle principali cause del flusso di rifugiati dalla Siria, ossia i crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante il conflitto.
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Dopo quasi un anno di processo, il 24 febbraio una corte tedesca ha condannato un ex colonnello dell’Intelligence siriana a quattro anni e mezzo di carcere per complicità in crimini contro l’umanità contro i manifestanti delle proteste del 2011, segnando il primo caso giudiziario al mondo per torture sponsorizzate da uno Stato, in questo caso la Siria.
Si tratta di un verdetto storico che dà speranza alle migliaia di siriani in Germania che affermano di essere stati torturati in strutture governative, dopo che i tentativi di istituire un tribunale internazionale per la Siria sono falliti.
Ma anche in altri Paesi sono in corso inchieste giudiziarie in base al principio di giurisdizione universale, che permette agli Stati di punire crimini di guerra e contro l’umanità anche se commessi in altri Paesi. Ad esempio, in Francia c’è un procedimento legale in corso avviato dai sopravvissuti siriani all’attacco con armi chimiche del 2013 nella Ghouta orientale contro funzionari siriani accusati dell’attacco. La denuncia richiede un’indagine penale contro Maher al Assad, fratello di Bashar, e altri funzionari militari che formavano la catena di comando.
Proprio a fine gennaio, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche ha dichiarato che il regime siriano ha mentito circa l’uso delle armi chimiche e che la sua versione “non può essere considerata accurata e completa” (leggi qui il rapporto completo).
Anche il Canada ha richiesto negoziati formali, ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, per ritenere la Siria responsabile delle innumerevoli violazioni dei diritti umani che ha inflitto al popolo siriano dal 2011, seguendo l’esempio di una richiesta simile avanzata dai Paesi Bassi a settembre 2020 e sulla base di prove ben documentati anche dalla Commissione internazionale di inchiesta indipendente ONU sulla Siria.
Insomma, nonostante decine di veti russi in seno al Consiglio di Sicurezza contro il deferimento della Siria alla Corte Penale Internazionale, 10 anni dopo i singoli Stati stanno cercando alternative per avvicinarsi all’unica soluzione possibile del conflitto siriano e del problema di milioni di rifugiati, ossia porre fine a decenni di impunità statale, di repressione indiscriminata e di crimini internazionali che hanno contribuito in larga parte a rendere la Siria l’inferno che è ancora oggi, 10 anni dopo le prime proteste pacifiche di quella rivoluzione che chiedeva (e chiede ancora) solo riforme e diritti.
di Samantha Falciatori