La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Nonostante gli accordi di riconciliazione, il regime siriano continua ad arrestare ed espropriare i beni dei rifugiati, mentre la Lega Araba spinge per il loro rimpatrio, che l’ONU valuta senza le minime garanzie di sicurezza. Quale futuro per milioni di rifugiati siriani?
Mentre il summit economico della Lega Araba svoltosi a Beirut il 20 gennaio 2019 ha rivelato profonde divisioni da parte dei membri della Lega circa la riammissione della Siria, espulsa nel 2011 per la brutale repressione delle manifestazioni di piazza, la questione dei rifugiati è stata quanto mai al centro delle discussioni, per l’impatto economico che questi hanno sui Paesi che li ospitano e per l’esigenza di rimpatriarli, nonostante i pericoli cui vanno incontro in Siria, compresi i controversi accordi di riconciliazione con il regime.
È il Libano in particolare a spingere per il rimpatrio dell’1.5 milioni di rifugiati siriani che ospita e per la riammissione della Siria nella Lega Araba. Rifugiati che in Libano vivono in condizioni disumane, aggravate non solo dalle temperature rigide e dalle tempeste di neve di gennaio che hanno ucciso almeno 15 bambini siriani, ma anche dall’ostruzionismo del governo libanese che impedisce alle organizzazioni umanitarie di fornire rifugi meglio attrezzati per i rifugiati.
Infatti oltre a limitare le operazioni dell’UNHCR, tra cui impedirgli di registrare nuovi rifugiati dal 2015, quando il Consiglio dei Rifugiati Danese, una ONG internazionale, ha progettato rifugi a cassettoni con pavimenti in cemento che avrebbero notevolmente migliorato la situazione, il governo libanese ne ha proibito la costruzione perché ritenuti “troppo permanenti”. Allo stesso modo, quando la società svedese di mobili IKEA ha finanziato la progettazione di simili prefabbricati, i cittadini libanesi hanno protestato per la percepita permanenza di quelle strutture, condannando i rifugiati a rimanere nelle tende di fortuna, senza riscaldamento e servizi igienici.
Non è infatti solo il freddo però a mietere vittime nei campi profughi: scarsissime condizioni igieniche e assenza di adeguate cure mediche proliferano le malattie, aggravate dalla scarsità di cibo, in Libano come in Giordania. Il 14 gennaio una mamma siriana nel campo profughi giordano di Rukban, dopo tre giorni di digiuno e senza possibilità di reperire cibo nel campo, si è data fuoco per disperazione assieme ai suoi tre bambini.
Giordania che, dopo la riapertura del confine con la Siria tre mesi fa, ha cominciato a rimpatriare alcune decine di rifugiati verso Damasco. Persino lo stesso UNHCR ha annunciato che nel 2019 ritiene possibile il rimpatrio di 250.000 rifugiati siriani, grazie alla riduzione delle operazioni belliche e al consolidamento del regime siriano sul territorio.
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Ma nonostante ciò, e anche a causa di ciò, in Siria non sussistono ancora le garanzie minime di sicurezza per rimpatriare i rifugiati, non solo perché le loro case sono state distrutte o confiscate dal regime, perché non ci sono infrastrutture adeguate, né energia né acqua sufficiente, né opportunità di lavoro, ma anche perché molti siriani fuggiti dall’inizio della guerra sono considerati disertori, traditori o simpatizzanti dell’opposizione, rischiando quindi arresti, torture e la coscrizione militare obbligatoria.
Secondo alcuni documenti trapelati grazie ad alcuni disertori, sarebbero 1,5 milioni i siriani ricercati dal regime per essersi opposti a esso o per aver partecipato a manifestazioni anti-governative. Come possano essere rimpatriati in Siria in condizioni sicure appare dunque un mistero.
Infatti, negli ultimi mesi il regime siriano ha condotto capillari operazioni di arresti nei confronti dei cittadini delle aree che ha riconquistato, accelerando al tempo stesso i ritmi delle esecuzioni nelle prigioni, a cominciare da quella di Sadnaya.
“La prigione di Sadnaya: la macelleria umana”, video di Amnesty International.
Nonostante la narrativa degli “accordi di riconciliazione”, con cui il regime siriano dovrebbe in teoria risolvere le ostilità con le opposizioni, le fazioni ribelli e le comunità civili delle zone riconquistate e con cui dovrebbe garantire la loro reintegrazione pacifica nelle comunità sotto controllo governativo, la realtà dei fatti è ben diversa: campagne di arresti arbitrari, sparizioni forzate, torture e assassinii sono all’ordine del giorno nei sobborghi attorno Damasco, a Deraa, a Homs, a Hama. Inoltre, gli accordi di riconciliazione prevedono la rinuncia a diritti fondamentali, come quello della libertà di espressione e spesso i cittadini che li firmano vengono costretti a denunciare parenti o amici coinvolti in attività anti-governative, pena l’arresto. È documentato comunque che anche la firma degli accordi di riconciliazione non garantisce immunità da arresti e torture.
Inoltre, grazie alla tristemente nota legge 10 e ad altre leggi anti-terrorismo, il regime sta confiscando in maniera sistematica i beni dei rifugiati, a cominciare dalla case, lasciando milioni di rifugiati e sfollati senza nulla verso cui tornare.
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Molti rifugiati si ritrovano quindi a dover scegliere tra vivere nella miseria in un Paese ospitante che li respinge o rischiare la vita tornando nel loro Paese d’origine, che non li rivuole in quanto li percepisce traditori e quindi come una minaccia.
Il regime siriano infatti non solo seleziona oculatamente quali rifugiati riammettere tramite i suoi apparati di sicurezza, ma li usa anche come moneta di scambio per esercitare pressione sui Paesi ospitanti, soprattutto quelli europei, anche attraverso l’alleato russo.
Da luglio la Russia sta cercando l’approvazione europea a proposte di rimpatrio, sfruttando e alimentando i sentimenti anti-immigrati che circolano in molti Paesi europei e collegandole esplicitamente a un (incondizionato) sostegno economico nella ricostruzione della Siria, e quindi anche alla revoca delle sanzioni a Damasco, il tutto per consolidare le vittorie politiche di Mosca in Siria e riabilitare il regime siriano.
Ma rimpatriare prematuramente i rifugiati, senza garanzie di sicurezza, non solo minerebbe la loro sicurezza, ma potrebbe portare a future ondate di sfollamento interno e all’ulteriore destabilizzazione di un tessuto sociale già devastato. Dopo tutto, le cause alla radice del conflitto – disuguaglianza, corruzione, violazioni dei diritti umani e abuso di potere da parte dello Stato- sono ancora lì.
di Samantha Falciatori