La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Il conflitto sta delineando una divisione della Siria in cui le varie potenze stanno radicando attraverso diversi accordi la propria presenza militare, mentre è sempre più evidente il disimpegno americano. Quali sono le implicazioni geopolitiche?
Il 14 luglio la Duma russa ha ratificato l’accordo militare siglato tra Russia e Siria lo scorso gennaio con cui la Siria cede la base navale di Tartus e quella aerea di Hmeymim (a Latakia) alla Russia, che potrà disporne interamente per 49 anni, con rinnovo automatico di 25. La Russia potrà quindi mantenere le sue forze navali e aeree in Siria (e sul Mediterraneo) con piena giurisdizione sulle basi ottenute da Damasco.
Questo accordo si aggiunge ai già firmati appalti da centinaia di milioni concessi nel 2016 a compagnie russe per la ricostruzione della Siria, all’accordo militare firmato nell’agosto 2016 (che avevamo tradotto qui) e ai già firmati accordi con cui la Siria ha concesso alla Russia, nel 2013, di esplorare e utilizzare i giacimenti petroliferi e di gas lungo le coste siriane.
Anche l’Iran, dopo l’approvazione di Bashar al Assad, installerà in Siria una propria base aerea e una navale, cosa che rappresenterebbe un altro importante successo per Teheran, che si aggiungerebbe agli accordi già siglati con la Siria sempre a gennaio 2016, tra cui (come avevamo visto qui) quello sulle telecomunicazioni, con cui l’Iran ha ottenuto la licenza di operare nel settore della telefonia mobile siriana, uno dei settori più redditizi dell’economia siriana, e come quello che concede all’Iran i diritti di estrazione di fosfati in Siria, nonché 5mila ettari di terreno per attività agricole e mille ettari per poter costruire terminal petroliferi e di gas.
Questo il prezzo che la Siria deve pagare per il ruolo decisivo che le due potenze alleate hanno avuto nel garantire la sopravvivenza del regime in generale e la riconquista di Aleppo est nel dicembre 2016 in particolare, ma cosa implica sul piano geopolitico?
Per la Russia si tratta di un grande successo, da un lato perché assicura piena gestione per un periodo pressoché illimitato e a condizioni più che favorevoli di asset militari dall’immenso valore strategico, dal momento che gli garantiscono l’unico sbocco sul Mediterraneo; dall’altro perché la pongono sulla scena politica internazionale in posizione di forza, essendo la Russia a gestire (e condizionare con i veti al Consiglio di Sicurezza) il processo diplomatico che riguarda la Siria.
Tuttavia, al successo russo sottende un’implicazione importante che riguarda il ruolo degli Stati Uniti: se da un lato è vero che i risultati russi sono stati dovuti ad un’efficace, quanto sprezzante, strategia militare e mediatica, dall’altro è anche vero che gli Stati Uniti hanno perseguito una politica, sia sotto Obama che sotto Trump, che ha deliberatamente lasciato la vera gestione della crisi siriana alla Russia.
Se infatti si mette da parte la lettura superficiale e fallace “dell’imperialismo americano che vuole rovesciare Assad” e si guarda attentamente a quello che gli USA hanno effettivamente fatto, e non solo detto, ci si accorge che la politica USA in Siria degli ultimi sei anni è stata tutta orientata a un progressivo disimpegno dallo scacchiere mediorientale, che la Russia ha abilmente colmato. Infatti, a differenza delle precedenti amministrazioni Clinton e Bush, che hanno fatto “dell’esportazione della democrazia” uno dei cardini della loro politica estera, l’amministrazione Obama ha visto un netto mutamento: limitare gli interventi militari diretti nel mondo, disimpegnarsi dal Medio Oriente e cercare di trasformare gli avversari in partner.
Sono molti gli esempi che si possono fare a riguardo: la presa di posizione di Obama a favore delle proteste pacifiche che nel 2011 scossero la Siria fu molto netta a parole, ma nei fatti il sostegno militare alle opposizioni è stato fin dall’inizio insufficiente a rovesciare il regime (ma sufficiente a tenerle in vita), discontinuo, ambiguo e col passare degli anni contraddittorio, come avevamo analizzato qui; il massiccio e regolare sostegno militare dato al contrario ai curdi dell’YPG, che infatti sono in lotta contro ISIS e non contro il regime siriano (fatta eccezione per qualche sporadico incidente). Ma è un esempio anche la clamorosa marcia indietro fatta nel 2013 quando Obama non intervenne militarmente, come più volte minacciato, quando il regime siriano usò il gas nervino sarin uccidendo 1.400 persone nella Ghouta orientale (Damasco); dietrofront che costò molto caro alla credibilità degli Stati Uniti, ma che rivelò la vera natura della politica americana a riguardo, cioè che l’intervento militare in Siria era da scongiurare, anche a costo di perdere la faccia oltre al potere negoziale. Ne è un esempio anche il riavvicinamento con l’Iran, storico avversario nella lista degli Stati finanziatori del terrorismo, che ha portato all’accordo sul nucleare, in cambio di fatto della “mano libera” concessa a Teheran in Siria.
Questa tendenza è stata portata avanti anche da Trump, che vede come area prioritaria quella asiatica e pacifica, in particolare la Corea del Nord, e non certo la Siria, come mostra la sostanziale vicinanza con la Russia di Putin: ratificata dal recente accordo di cessate il fuoco nel sud della Siria e la recente decisione di interrompere definitivamente l’inefficace programma di addestramento e sostegno militare ai ribelli siriani. L’attacco militare ordinato da Trump contro la base aerea di al Shayrat, da dove sarebbero partiti gli aerei che hanno bombardato con armi chimiche Khan Sheikhoun, aveva fatto pensare a un cambiamento di linea, ma si è rivelato ben presto un vuoto avvertimento non concepito per preludere a un’azione militare concreta contro il regime siriano, che gli Stati Uniti non hanno interesse a far cadere, ora meno che mai.
Ciò non significa che gli Stati Uniti sono disinteressati alla Siria, in quanto resta prioritaria la lotta all’ISIS, intensificatasi sotto Trump soprattutto nella battaglia per Raqqa e nel sostegno all’YPG, che ha concesso a Washington una base militare a Tabqa (Raqqa) per le operazioni anti-ISIS (che si aggiunge a quella che gli USA stanno costruendo a sud della Siria, vicino al confine giordano e iracheno).
Il che riporta alla questione della basi militari straniere in Siria, in quella che sembra essere una corsa tra Russia, Iran e Stati Uniti per “accaparrarsi” territorio per le proprie basi e imporre una presenza militare fissa nelle relative aree di interesse in territorio siriano.
Anche per l’Iran infatti è un grosso successo, non solo perché permetterebbe di avere facile e libero accesso territoriale agli Hezbollah in Libano e ad Hamas in Palestina (suggellando il suo controllo sulla vasta regione che comprende Libano, Siria, Iraq e Yemen), ma anche perché i territori che sta ottenendo da Damasco servono per completare il suo progetto di ricomposizione demografica della Siria su basi religiose di cui avevamo parlato qui, in un più ampio progetto di “sciizzazione” della regione: la mezza luna sciita, dall’Iran passando per l’Iraq fino alle sponde del Mediterraneo.
In questo riassetto geopolitico, anche la Turchia ha dovuto rivedere la sua dura politica anti-Assad: già da tempo infatti ha ammorbidito la sua posizione verso il regime siriano, riavvicinandosi alla Russia e tutelando i suoi interessi nel nord della Siria in chiave anti-ISIS e anti-YPG con l’operazione “Scudo sull’Eufrate”. Non a caso la Turchia, conclusa l’operazione, ha cominciato a smantellare alcune milizie dei ribelli siriani, arrestandone i comandanti.
Chi si ritroverebbe il nemico alla porta è Israele, il cui Premier Netanyahu ha già espresso preoccupazione perché tutto ciò permetterebbe all’Iran di estendere la sua influenza in Siria con massiccia presenza militare lungo i confini israeliani, minacciandone la sicurezza.
E il regime siriano? Sembra aver raggiunto il suo scopo, cioè restare al potere dopo aver eliminato l’opposizione, ma il prezzo potrebbe essere più alto del previsto: la Siria è infatti divisa in aree di influenza, con una presenza militare straniera che si va radicando ed estendendo sempre più in un quadro in cui tutti, soprattutto gli alleati del regime, sembrano guadagnarci a discapito della sovranità della Siria e della sua popolazione. Il concetto classico di “imperialismo” meriterebbe forse, nel caso siriano, di essere guardato con occhio meno superficiale e categorico di quanto comunemente si faccia.
di Samantha Falciatori