Per la terza volta dalla sua auto-proclamazione d’indipendenza nel 1991, il Somaliland ha organizzato lo scorso 13 Novembre delle elezioni presidenziali, nonostante ancora fatichi a farsi riconoscere dalla Comunità Internazionale. Ma cosa si intende per Somaliland e come ha fatto a non farsi trascinare nel caos nel quale è sprofondato il resto del Paese?
Formalmente inesistente, tagliato fuori dagli aiuti internazionali, il Somaliland – un “non Stato” del Corno d’Africa – ha la sua propria Costituzione, un parlamento, una moneta, una bandiera, un esercito, un inno nazionale, una propria economia e sigla accordi internazionali. Insomma, il Paese vive, si sviluppa ma non figura in nessuna mappa ufficiale poiché de facto è parte integrante della Somalia.
L’ex Somalia Britannica – che oggi conta circa 4 milioni di abitanti – fu incorporata all’ex Somalia Italiana all’indomani dell’indipendenza del Paese del 1960, costituendo la Somalia che conosciamo oggi, per poi auto-proclamarsi indipendente nel 1991. Dopo circa 10 anni di violenta guerra civile contro il governo di Siad Barré, l’ex Somalia Britannica scelse di staccarsi dal resto del Paese per cercare di ricostruire una propria autonomia. I conflitti clanici – tipici di quella zona – hanno distrutto la Somalia e indebolito le sue istituzioni, ma nel caso del Somaliland, il nepotismo e la lealtà dei clan si sono rigenerati come mai permettendo di creare tutti i presupposti per una pace durevole.
Come avevamo analizzato, uno dei grandi problemi della Somalia è la divisione clanica della sua società, ma in Somaliland c’è maggiore stabilità perché la sua società è più omogenea dal punto di vista dei clan che la compongono e, tagliando i legami con il resto del Paese, ha saputo preservare la pace nel suo territorio. Inoltre, a differenza degli italiani, gli inglesi mantennero il diritto consuetudinario che permise ai somalilandesi di riorganizzarsi una volta separatisi dal governo centrale.
[pullquote] In una delle aree più vulnerabili del mondo – caratterizzata da dittatura, guerra e terrorismo – la repubblica del Somaliland rappresenta un’eccezione: il paese si è sviluppato nell’unica democrazia funzionante della regione. [/pullquote]
Sebbene povero e isolato, il Somaliland si è impegnato a coniugare pacificamente democrazia e tradizioni culturali con un successo che raramente si è visto in altri Paesi africani e ha saputo gestire e proteggere il suo territorio in modo efficace e senza assistenza internazionale. Il Somaliland infatti non ha accesso ai prestiti della Banca Mondiale né ai finanziamenti del FMI per poter sviluppare nuove infrastrutture. Bisognerebbe prima riconoscerne l’indipendenza, cosa che creerebbe un precedente per molti Paesi africani che vivono situazioni analoghe alla Somalia. La sua fortuna però è data dalla sua posizione geografica, che ha sempre interessato molti Stati e investitori stranieri.
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La vicina Repubblica di Gibuti inizia infatti ad essere troppo piccola per rispondere alle ambiziose esigenze economiche e geopolitiche della regione. Abbiamo già analizzato l’importanza strategica di questo nodo nevralgico del commercio marittimo mondiale che unisci il canale di Suez all’Oceano Indiano, ma a ciò si aggiungono i nuovi scenari di guerra, a cominciare da quello yemenita. Per l’Etiopia – che dipende interamente dall’enclave Gibutino – il porto di Berbera, in Somaliland, assicura un secondo accesso al mare, fondamentale se si considera che l’Etiopia viaggia con una crescita a doppia cifra e prevede di far transitare il 30% delle importazioni dal porto somalo contro l’appena 5% di oggi.
Inoltre per le numerose forze occidentali stazionate a Gibuti risulta di vitale importanza avere un vicino stabile in una regione da sempre afflitta da guerre. Nel 2016, Dubai Ports World – colosso dell’industria portuaria – ha siglato un contratto di circa 440 milioni di dollari per la gestione e lo sviluppo del porto di Berbera, mentre il Kuwait ha finanziato il nuovo aeroporto della capitale. Inoltre, il governo di Hargheisa ha autorizzato nel 2015 l’installazione di una base militare e logistica degli Emirati Arabi Uniti. Questa ultima va letta anche in chiave più ampia visto che le basi navali di Berbera – cosi come quella di Assab in Eritrea – sono utilizzate per le operazioni militari della coalizione Saudita condotte nello Yemen. Per di più la posizione permette di controllare la sicurezza delle navi in transito nello stretto di Bab-el-Mandeb.
Il Somaliland ha saputo nel tempo sfruttar queste dinamiche per cercare di costruirsi una stabilità. Nel corso degli anni il governo ha sviluppato un forte sentimento nazionalista e, come spesso accade, l’arma del nazionalismo è risultata un buon collante per una giovane nazione. Si stima che circa il 70% della popolazione abbia meno di 30 anni, quindi un’intera generazione nata dopo l’indipendenza ha avuto solo questo Stato come punto di riferimento. Per di più, la diaspora sta poco a poco tornando, per investire e partecipare all’economia di quello che considerano ancora il loro Paese. Le rimesse dei migranti fruttano oggi un importo di circa 500 milioni di dollari all’anno.
È in questo panorama che lo scorso 13 novembre si sono svolte le elezioni presidenziali, le terze che il Paese ha finora svolto. Le elezioni si tengono di solito ogni cinque anni, ma carestie climatiche e altri problemi organizzativi ne hanno spesso rinviato lo svolgimento. I somalilandesi sono stati quindi chiamati a scegliere il loro nuovo presidente tra i tre candidati in corsa dopo che il candidato uscente, Ahmed Mohamud Silaanyo, ha deciso di non ricandidarsi alla fine del suo primo ed unico mandato.
È stato eletto Musa Bihi Abdi – il leader del partito al potere – con il 55% dei suffragi. Il Paese sembra dare lezioni di democrazia esemplari nella regione. È vero che i problemi non mancano, il Somaliland è stato epicentro di una siccità che ha devasto tutto il Corno d’Africa, l’influenza dei clan – seppur limitata – resta un problema reale, la corruzione è sempre presente e le tensioni con il vicino Puntland sono all’ordine del giorno. Tuttavia, ha saputo coniugare, all’interno dei limiti coloniali britannici, vecchie consuetudini e leggi moderne, mostrando una reale stabilità dove le elezioni possono svolgersi in un clima relativamente tranquillo.
Abdirahman Mohamed Abdullahi Irro, candidato di Waddani, il principale partito di opposizione, ha detto:
Ho deciso di accettare la sconfitta per mantenere l’unità e la pace nel Somaliland, non perché Musa Abdi Bihi ha vinto. Ci sono state delle irregolarità che mi spingono a non riconoscere l’esito delle urne, ma non distruggerò questo Paese per le mie ambizioni personali né accetto che la gente sparga sangue per me”.
Un chiaro segnale di come il Somaliland stia cercando si rafforzarsi, autodeterminarsi e farsi riconoscere dinanzi al mondo. È stato il primo Paese al mondo ad utilizzare il sistema del riconoscimento dell’iride per cercare di evitare brogli alle urne, seppur qualche irregolarità sia stata segnalata. Il governo britannico aveva anche finanziato una squadra di 60 osservatori internazionali provenienti da 27 paesi per assicurare il regolare svolgimento delle elezioni.
Ciononostante, Onu, Unione Africana e Lega Araba faticano a riconoscerne l’indipendenza, poiché legittimare l’esistenza del Somaliland farebbe da apripista a tutte le frange secessioniste della regione, oltre a rischiare una balcanizzazione della Somalia. Le tensioni nell’Ogaden, così come nelle regioni semiautonome del Puntland e di Jubaland, e le tensioni etniche in Etiopia rischierebbero di acuirsi.
Il panorama del Corno d’Africa è complesso, composto da Stati fragili, instabili dove le strutture claniche sopravvivono al modello di Stato moderno. L’eredità coloniale ha lasciato un insieme di Stati nazione frammentati dalle tensioni etniche, con frontiere non ben delineate che rischiano di esplodere da un momento all’altro.
La questione dell’indipendenza non è unica nella regione, basti pensare all’Eritrea o al Sud Sudan: ambedue hanno ottenuto l’indipendenza dal Paese a cui appartenevano, ma l’esito finale non sembra incoraggiante al punto da promuovere un altro simile caso. Eppure, il Somaliland avrebbe tutti i requisiti tecnici stabiliti dalla Conferenza di Berlino del 1884 per ottenere l’indipendenza.
La Comunità Internazionale non si pronuncerà finché l’Unione Africana non risolverà la questione, ma quest’ultima si mostra molto cauta nell’accordare questo privilegio al Somaliland. La natura di questo rifiuto è strategica: nel corso degli anni alcuni Stati africani intervenuti nella guerra civile somala hanno da un lato spinto l’unione e dall’altro alimentato focolai secessionistici per ampliare la loro sfera geo-strategica. Molti interessi si intrecciano e ciò si traduce in un mantenimento dello status quo. L’Unione Africana ha ben altri problemi e non ha interesse a gestire un altro caso delicato e ad attuare un tale processo. Inoltre, l’attuale crisi nel Sud Sudan – da poco indipendente – e la situazione in Eritrea rendono ancora più improbabile il riconoscimento dell’indipendenza.
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Sebbene ci sia una timida apertura al dialogo tra il governo di Hargheisa e quello di Mogadiscio, ci si può augurare che la volontà e l’organizzazione possano permettere al Somaliland di acquisire il riconoscimento a cui aspira? Probabilmente no, almeno non nell’immediato. Gli antagonisti sono numerosi e la situazione regionale è molto fragile. I nostalgici della “Grande Somalia”, una politica diplomatica conservatrice e il rischio di una balcanizzazione regionale disegnano un futuro non molto sereno per il giovane “non-Stato”.
Tuttavia, uno status intermedio gli avrebbe forse giovato e gli avrebbe permesso di aver maggior benefici legali e commerciali per poter maggiormente sviluppare la regione.
di Mohamed-Ali Anouar