Nel luglio del 1946, a soli 11 mesi dalla distruzione delle città di Hiroshima e Nagasaki e dalla fine della più grande e sanguinosa guerra di tutti i tempi, gli Stati Uniti d’America svolgevano due test nucleari su un piccolo e incontaminato atollo dell’Oceano Pacifico: Operation Crossroads.
Le ragioni che spinsero la Presidenza Truman ed i vertici delle Forze Armate a compiere questi esperimenti, erano sostanzialmente due. In primo luogo, non potendo sapere fino a quando sarebbe durato il loro monopolio nucleare, gli Stati Uniti avevano bisogno di raccogliere il maggior numero possibile di informazioni in vista di una eventuale guerra atomica. La nuova bomba è un’arma esclusivamente strategica da impiegarsi nelle retrovie del nemico, lontano dal campo di battaglia, o è possibile un suo utilizzo in chiave tattica? Qual è l’effetto prodotto da un ordigno nucleare su navi ed attrezzature militari? Quali gli effetti di un’esplosione subacquea? Quale strada dovrebbero imboccare nel futuro l’ingegneria navale e la produzione bellica? Questi erano i quesiti a cui Crossroads, nelle intenzioni dei suoi organizzatori, avrebbe dovuto dare risposta, facendo degli Stati Uniti il Paese più informato circa gli effetti della bomba atomica e le dinamiche che ad essa fanno contorno e, dunque, il più pronto a combattere una guerra nucleare. La seconda ragione che spinse Amministrazione e Pentagono a pianificare i test del 1946 era la volontà di dare al mondo e all’Unione Sovietica, unico concorrente in grado di colmare il proprio ritardo atomico in tempi ragionevolmente brevi, un’ulteriore dimostrazione di potenza militare. Se Fatman e Little Boy avevano raso al suolo due città industriali annichilendo all’istante almeno 120 mila persone, infatti, non esisteva alcuna prova filmata della terribile potenza scatenata dalla fissione nucleare. Centoquattro macchine fotografiche, 200 cineprese, una quantità di pellicola superiore a quella utilizzata ad Hollywood per girare undici film e una radio appositamente creata poterono integrare tale lacuna.
Fu così che Bikini, un piccolo atollo della Micronesia, un paradiso terrestre facente parte delle Isole Marshall ed immerso nell’Oceano Pacifico, divenne sede del primo esperimento nucleare “weapons effects” mai realizzato nella storia. La scelta, resa possibile dall’Amministrazione Fiduciaria che gli USA esercitavano su tutte le isole del Pacifico a seguito della vittoria sull’Impero giapponese e giustificata dalla lontananza di Bikini da zone fortemente abitate e dalle più trafficate rotte commerciali, comportò la deportazione coatta dei suoi abitanti ed una pesante contaminazione del suo ecosistema. Fu così che una flotta composta da vecchi bastimenti americani e da navi sottratte alle Marine tedesca e giapponese, fu posta alla fonda nelle acque profonde e cristalline dell’atollo quale bersaglio degli esperimenti. Alle 9.00 e 34 secondi del primo di luglio del 1946, a circa 160 metri sul livello del mare, aveva luogo il primo test del programma Crossroads (nome in codice “Able”). Ventiquattro giorni dopo, alle 8 e 35 del 25 luglio, ebbe invece luogo il test “Baker”: la prima detonazione nucleare sottomarina della storia.
“Baker” fu estremamente spettacolare in quanto la bomba, deflagrando sott’acqua, non diede vita al caratteristico fungo atomico, ma ad una nube nucleare che si espanse a gran velocità a pelo d’acqua. Ventiseimila tonnellate di naviglio fu scagliato in aria, le vernici evaporarono, le chiglie furono squarciate, i ponti bruciati e contorti. La grande massa d’acqua vaporizzata e radioattiva sollevata dall’ordigno, trasportata dal vento, colpì in pieno le navi americane ancorate a 18 miglia dall’atollo e cariche di uomini che avevano lavorato alla realizzazione del progetto. I marinai ivi imbarcati, digiuni di qualsiasi conoscenza circa gli effetti di un’esposizione diretta al fallout radioattivo, non compresero da subito il pericolo a cui erano stati ingenuamente esposti e cosa significasse essere colpiti da una pioggia radioattiva. Gli organizzatori di Crossroads, da parte loro, si limitarono a ribadire che erano state prese le più stingenti misure di sicurezza e che pertanto non esisteva alcun pericolo. A dimostrazione di ciò, nei giorni immediatamente successivi ai marinai fu permesso di fare il bagno nelle acque dell’atollo, infestate di pesci morti, e la stessa acqua contaminata fu utilizzata per le docce, le cucine e la lavanderia. Gli effetti di una simile condotta sono facili da immaginare: tra i marinai americani vi fu un alto numero di contaminati. Migliaia di loro si ammalarono prima ancora che le loro navi attraccassero nei porti di partenza una volta conclusasi Crossroads. Alcuni morirono in breve tempo, altri combatterono contro tumori e linfomi per anni, qualcuno vi combatté per decenni.
Passi che, con la complicità di un vento non previsto, un’esplosione di violenza inaspettata abbia sommerso di pioggia radioattiva numerose navi amiche, ma che gli organizzatori di un tale evento abbiano continuato ad ignorare, o non abbiano in alcun modo immaginato, i rischi di contaminazione connessi all’utilizzo di acqua avvelenata dalla radioattività e all’esposizione prolungata ad alti livelli di energia radiante è una cosa che lascia interdetti. Viste poi le scarse conoscenze che all’epoca si avevano circa la radioattività e i suoi effetti sull’ambiente e gli esseri viventi, certo qualche domanda sorge spontanea: come è possibile che a migliaia di uomini venisse concesso di rimanere a così poca distanza dalla zona operativa per ore, se non per giorni? Come è possibile che, a scopo precauzionale, non si stato ritenuto necessario utilizzare una fonte d’acqua alternativa per la preparazione degli alimenti dell’equipaggio, ufficiali compresi? Davvero le conoscenze circa la radioattività e l’energia atomica in possesso dei vertici scientifici e militari a stelle e strisce erano così scarse e ottimistiche? Forse che, una volta verificatosi l’imprevisto del contagio da fallout radioattivo, si sia deciso di utilizzare i marinai, ormai contaminati, come cavie?
Purtroppo, queste e simili domande rimangono tutt’oggi, 68 anni dopo, senza risposta. L’argomento viene raramente dibattuto, tanto a livello accademico che giornalistico, e pochi sono i protagonisti di allora ancora in vita oggi. Le fonti più attendibili sull’argomento, cioè le relazioni ufficiali e tutto il materiale conservato negli archivi di stato USA ed in quelle delle forze armate americane, non sono ancora liberamente accessibili. E se anche lo fossero, chi ci garantisce possano effettivamente sciogliere i tremendi dubbi che, come nere nubi, si addensano su questa vicenda? Si fa allora spazio, nella nostra mente, una subdola convinzione: la verità su quanto accadde a Bikini nel luglio del 1946, probabilmente, non la sapremo mai.
Per approfondire
– Niedenthal Jack, For the good of Mankind, Bravo publisher, Majuro, Republic of Marshall Island, 2000.
– Di Nolfo Ennio, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari, 2000.
– Radio Bikini, regia di Robert Stone, USA, 1987, 56 minuti
– www.bikiniatoll.com
– www.nuclearclaimstribunal.com
Stefano Crippa