Sulle reali dimensioni del traffico internazionale di beni culturali non si hanno informazioni dettagliate. Quello che si sa, tuttavia, è che negli ultimi anni il fenomeno si è intensificato e sta portando grosse quantità di denaro nelle casse delle organizzazioni terroristiche.
Il traffico internazionale di beni appartenenti al patrimonio culturale mondiale non è un fenomeno nuovo nella storia. I musei e le residenze private dell’Occidente sono da sempre pieni di artefatti sottratti ai Paesi di appartenenza in maniera più o meno legale o forzata. È tradizione, da millenni, che i vincitori di conflitti portino in Patria bottini di beni archeologici e artistici dai Paesi vinti. I giorni nostri non fanno eccezione: negli ultimi anni il fenomeno è tornato a essere problematico per via delle attività compiute dai gruppi terroristici in Medio Oriente, che, per motivi ideologici (ma soprattutto di finanziamento) stanno compiendo la più estesa distruzione di patrimonio culturale dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Come funziona?
Il traffico internazionale di beni culturali segue un percorso a tappe, che incomincia dai Paesi di origine, passa attraverso i Paesi di transito e si conclude nei Paesi che ospitano i mercati di destinazione. Non è possibile identificare in maniera univoca gli stati di origine, transito e destinazione; tuttavia è facile delineare alcune caratteristiche generali.
I primi, sono tendenzialmente Paesi in possesso di un ricco patrimonio storico, artistico e culturale, che non si riesce a proteggere per mancanza di risorse; stati fragili dove il conflitto è endemico. I secondi sono Paesi caratterizzati dalla presenza di deboli regimi di import/export, dove i controlli sono poco rigidi ed è facile ottenere licenze che facciano apparire la transazione legittima; stati dove la legislazione nazionale è farraginosa e la corruzione diffusa. I terzi sono tendenzialmente Paesi ricchi e sviluppati, dove la domanda è florida e i mercati sono capaci di assorbire beni di pregio – non si pensi solo agli Stati occidentali, ma anche agli Stati del Golfo.
Un bene archeologico o culturale, dopo essere stato trafugato, viene nascosto nel Paese di origine, in attesa del momento propizio per essere fatto uscire. Viene poi trasportato in Paesi di transito limitrofi, dove viene spesso stoccato assieme ad altri beni simili, mentre si preparano le operazioni logistiche per il viaggio verso i mercati di destinazione. Tali passaggi sono praticamente impossibili senza la complicità di autorità di confine corruttibili e senza il supporto di una sviluppata rete di crimine organizzato e strutture logistiche. I beni vengono poi trasferiti nei mercati di destinazione, dove, attraverso meccanismi volti a nascondere la loro provenienza oltre all’identità del venditore, sono messi nelle disponibilità di privati, musei o case d’asta, poco interessati ad accertare la provenienza di ciò che acquistano.
L’intero processo può durare anni ed è reso possibile dalla debolezza dei sistemi di controllo internazionali, incapaci di far fronte al fenomeno. Manca infatti un qualsiasi strumento internazionale che definisca questi reati e che ponga le basi per meccanismi di cooperazione tra Paesi. Un ulteriore problema riguarda l’inadeguatezza delle legislazioni nazionali nonché, elemento principale, la mancanza di competenza e efficaci strumenti investigativi da parte delle forze dell’ordine. Tali elementi spiegano perché questo sia uno dei fenomeni criminali internazionali più difficili da contrastare.
I recenti sviluppi
Sebbene la disponibilità di dati attendibili e ufficiali continui a essere scarsa, fonti Onu rilevano che, sulla base di monitoraggi satellitari, le attività di saccheggio nelle aree controllate dall’Isis sono sensibilmente aumentate nel 2014 e nel 2015. Inoltre, nel corso dello stesso periodo, l’Isis si è dotato di strutture amministrative dedicate a tali attività, arrivando a creare un sistema di ricevute relative alla tassazione di beni culturali estratti dai territori controllati. L’autoproclamato “califfato” infatti non si cimenta direttamente nel traffico di tali beni, ma trae finanziamento prevalentemente dalla concessione di permessi per saccheggiare siti archeologici situati all’interno dei loro territori, o dalla vendita diretta di cimeli ai trafficanti.
La questione principale è che sebbene si abbia notizia della sparizione di centinaia di migliaia di artefatti in Medio Oriente durante quel periodo, non si conosce la loro destinazione. Gli unici ritrovamenti sono avvenuti in Turchia, Libano e Bulgaria, annoverati tra i Paesi di transito, ma la quantità di beni recuperati è relativamente bassa. Sulla base di quanto si è raccolto risulta ancora difficile capire quale sia la dimensione globale del traffico, quali siano esattamente gli Stati di destinazione e soprattutto da dove questi oggetti provengano, mancando la possibilità di tracciamento degli stessi. Thomas D. Bazley, autore del libro Crimes of the Art World, parlando di opere d’arte, ha spiegato che il 90 per cento di quelle trafugate vanno disperse. Si può credere che vi siano percentuali simili anche nei riguardi di manufatti archeologici.
Una consistente parte di questi manufatti potrebbe essere ancora nascosta in Medio Oriente, o in qualche altro Paese di transito, in attesa della giusta occasione per essere trasportati fino ai mercati di destinazione. È possibile che le organizzazioni criminali stiano muovendo piccole quantità di beni per testare la capacità del sistema di intercettarli.
A complicare il quadro c’è poi il problema dell’identificazione. Molte delle opere archeologiche in Siria e in Iraq sono di origine romana, bizantina o islamica, molto simili alle antichità risalenti allo stesso periodo che si trovano in altre parti della regione. Per questo motivo, il riconoscimento di opere trafugate dalle aree dove si originano i traffici richiede conoscenze specializzate. Sull’altro versante invece, nei mercati dove gli oggetti artistici vengono acquistati, mancano spesso standard minimi per poter commerciare tali beni, in particolare mancano regole che riguardino i certificati di provenienza e meccanismi che permettano di accertare l’identità di chi vende.
Quindi?
Elaborare un sistema efficace di contrasto a questi crimini internazionali non è né facile né veloce. Tuttavia, per merito della crescente sensibilità della comunità internazionale riguardo al tema, qualcosa si sta muovendo, sebbene la maggior parte delle iniziative resti a livello nazionale (spiccano a riguardo la Giordania e l’Italia). In sede Onu si sono identificate alcune misure: il primo passo è raccogliere dati, creare database e sistemi di monitoraggio, basandosi sulla collaborazione dei corpi di polizia nazionali e internazionali (anche attraverso l’Interpol), delle accademie e delle istituzioni. Fondamentale è la formazione e la specializzazione delle forze dell’ordine, nonché il coinvolgimento di istituzioni private quali case d’asta e musei.
Se l’offerta è così florida, vuol dire che la domanda è alta. E se a tutte le misure suddette non si affiancano interventi legislativi e di controllo sui mercati di sbocco per risolvere le falle esposte, difficilmente l’azione di contrasto sarà incisiva nel lungo termine. Purtroppo la materia spesso non è prioritaria nei panorami nazionali e internazionali, ma c’è da sperare che lo diventi di più.
di Leonardo Stiz