Di Marina Roma
Nelle ultime settimane si sono ancora registrate tensioni tra i membri UE sulla questione dei migranti. Le istituzioni comunitarie non sono state in grado di creare una politica comune efficace che superi gli accordi di Dublino. Lo Stato più sotto pressione è la Grecia, che alcuni paesi membri vorrebbero temporaneamente escludere da Schengen.
“Merkel, wir lieben dich”, “Merkel, we love you”, dicevano i profughi siriani accolti in Germania lo scorso agosto. Le immagini dei migranti forzati che camminano per le strade di Monaco sulle note dell’Inno alla Gioia, se da un lato erano la dimostrazione della solidarietà tedesca, dall’altro hanno decretato la fine del sistema europeo di gestione delle richieste d’asilo per come è stato (mal) regolato fino ad ora.
La Convenzione di Dublino – che determina lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata all’interno dei confini UE – si è dimostrata uno strumento inadeguato alla luce degli ingenti flussi migratori degli ultimi due anni. Come funziona il meccanismo forse già lo sapete, ma lo ripetiamo: il regolamento di Dublino prevede che la richiesta di asilo possa essere formulata esclusivamente nel primo paese di arrivo del migrante. Questo complesso di regole è stato pensato e delineato per un numero di richieste di asilo molto inferiore rispetto a quello attuale, ed anzi, Dublino III complica ulteriormente una situazione che ha ormai perso i connotati dell’emergenza, diventando per gli Stati una realtà da affrontare ogni giorno.
Questo regolamento era destinato a non reggere, soprattutto alla luce del sovraffollamento dei centri di accoglienza, e del fatto che spesso sono gli stessi migranti ad opporsi ad esso (per la maggioranza dei migranti la prima terra europea a venir toccata è la terra sud europea, la loro destinazione però è il nord Europa). Per questo, la scorsa estate, la cancelliera tedesca ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino all’interno dei confini della Germania, aprendo le porte a più di un milione di profughi siriani, di fatto aggravando la pressione dei flussi migratori nei paesi balcanici.
Tra i paesi toccati dal fenomeno migratorio, a fare da capofila contro l’attuale regolamento ci sono i paesi del sud Europa, tra cui l’Italia. Negli ultimi mesi si è discusso in sede UE dell’introduzione di un meccanismo di distribuzione immediata dei richiedenti asilo fra i 28 Stati membri UE. La ripartizione nelle intenzioni dovrebbe avvenire tramite assegnazione di una quota per ciascun paese, sulla base del PIL o della popolazione. I migranti in attesa di trasferimento dovrebbero essere trattenuti in “hot spot” appositamente creati in alcuni paesi del limes comunitario. In Grecia ne erano previsti cinque, di cui solo uno è già attivo.
L’esecutivo europeo ha mostrato negli ultimi giorni una disponibilità a proporre una riforma dell’attuale regolamento di Dublino III (attuativo della Convenzione) che vada in questa direzione. Il Commissario agli Affari Interni e Migrazioni Dimitri Avramopoulos ha più volte ribadito la volontà di promuovere una revisione del regolamento di Dublino e, in generale, delle modalità di asilo messe in atto in Europa.
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I segnali di apertura da parte della Commissione hanno suscitato i malumori degli Stati che più temono un eventuale appesantirsi del numero di migranti a loro carico. Il Regno Unito, in primis, si è opposto a modifiche del regolamento. Il Primo ministro David Cameron, ha affermato inoltre il proprio impegno nel velocizzare al massimo il processo per il referendum relativo ad un’eventuale uscita dall’Unione. Ad appoggiare – seppur con qualche problema di politica interna – le richieste dell’Europa meridionale ci sono la Germania e una timida Francia.
Brexit o no, è evidente che un approccio nazionale al problema non risolve la questione profughi. A parte irrealistiche, quanto estreme, proposte di chiusura delle frontiere, la ricerca di una strada condivisa appare l’unica soluzione praticabile. Il rischio, altrimenti, è quello che l’Europa si trovi costretta a dover tornare indietro nella sua stessa storia: da area di libera circolazione a insieme di stati rinchiusi all’interno dei loro confini. La minaccia di una mini-Schengen, un’area di libera circolazione ridotta ad alcuni Stati, si fa più concreta proprio in questi giorni. Alcuni paesi come la Germania, la Svezia e l’Austria (che da soli hanno accolto il 90% delle richieste d’asilo presentate nel 2015), hanno attaccato la Grecia, sottolineando come siano inadeguate le misure prese dal paese ellenico per affrontare l’emergenza, minacciando più o meno velatamente una sua esclusione temporanea dal trattato di Schengen. Di contro, la Grecia ha risposto che l’UE non ha fatto abbastanza per aiutare un paese già in difficoltà economica e sociale, e che non si può chiedere ad un paese di 10 milioni di abitanti di gestire flussi migratori che comprendono centinaia di migliaia di persone all’anno.