di Mohamed-Ali Anouar
Da decenni la Somalia vive in costante stato di guerra, e sembra che siano scarse le prospettive di pacificazione tra i vari clan della regione. I progetti coloniali che vollero tentare di costruire la Grande Somalia non hanno considerato la frammentazione tribale e le aspirazioni delle popolazioni locali. Ecco perché si può parlare di Somalia come di Stato Fallito.
C’è voluto un conflitto di estrema violenza tra Hargeisa e Mogadiscio nel maggio del 1991 per dividere un popolo unito trent’anni prima, quando da ciò che rimaneva dal vecchio protettorato britannico e dell’ex colonia italiana venne fondato un solo Stato. Il patto stretto da questo popolo con lo Stato avrà però vita breve, poiché nel 1969 il Generale Mohamed Siad Barre – approfittando di un vuoto politico – prese il potere in seguito a un colpo di stato, e creò tutti i presupposti necessari a definire oggi la Somalia un failed state.
Indipendente dal 1960, tuttavia il Paese non è sfuggito al destino riservato agli Stati dell’Africa sub-sahariana: colpi di stato militari, dittature, ingerenze di forze ex-coloniali, partiti unici, socialismi improvvisati, guerre civili, carestie, spostamenti di popolazione ecc. Eppure, la Somalia possedeva tutti i requisiti per diventare uno Stato funzionante: una sola etnia, una sola lingua e una sola religione (Islam sunnita della scuola shafii). Un’omogeneità piuttosto rara da trovare in Africa.
Ciononostante, il caos e la violenza regnano sovrane in Somalia da oltre 47 anni. Molte sono le cause, ma la prima causa d’instabilità è dovuta al tentativo fallito di Siad Barre di cambiare un assetto regionale millenario. Per cogliere le origini di una tale crisi e capire come una popolazione della stessa etnia è diventata nemica giurata di sé stessa e impegnata in una lotta fratricida, è necessario tornare indietro nel tempo poiché la crisi somala affonda le sue radici su diversi fattori: storici, geografici, etnici e politici.
La suddivisione del Continente africano – deciso verso la fine del XIX Secolo dalle potenze coloniali – è all’origine di molte ambiguità riguardo l’attribuzione dei concetti di Nazione e di Cittadinanza nei Paesi africani. In effetti, questo decoupage territoriale – fatto senza badare troppo alle popolazioni locali e senza tenere in considerazione le tradizioni nomade – avrebbe determinato le attuali frontiere di Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, ecc.
L’instabilità della Somalia risale alla nascita stessa del Paese, e può spiegarsi in parte dalla caratteristica strutturale del suo popolo. Difatti, seppur la popolazione somala sia relativamente omogenea, è ugualmente caratterizzata da un tribalismo tradizionale, che è un perno centrale nella l’identità degli individui, nella vita politica, nella ripartizione delle risorse e del potere, e anche nel conflitto tuttora in corso.
I clan sono una sorte di grande famiglie allargata, la quale raggruppa individui uniti da legami comuni ed ereditarie, caratterizzate da uno stile di vita, una lingua, un territorio e valori propri che li distinguono gli uni dagli altri. In Somalia, i clan sono sei, ma sono a loro volta suddivisi in vari clan e sotto-clan, i cui criteri di distinzione e confini geografici di sussistenza non sono sempre definiti, per via della loro tradizione nomade. Questo apparato crea così una moltitudine di attori che andranno poi a determinare l’attuale panorama. Pertanto, il “clanismo” è un componente primordiale dell’identità dei somali. I clan si comportano come vere e proprie polity statuali: possono dichiarare guerra e possono siglare forme di alleanze, specialmente quando clan minori si alleano con quelli più numerosi per garantirsi la sopravvivenza (esattamente come fanno gli Stati nazione).
Questo sistema tribale, sviluppato fin dal XVI Secolo, ha creato una forma di giustizia tradizionale chiamata xeer, basata sulla risoluzione delle controversie attraverso un complesso organismo di compensazione, scambi e trattative diplomatiche fra i vari capi-clan, che permise tutto sommato al Paese di vivere nell’ordine e la pace sociale fino all’arrivo dell’era coloniale.
A questa realtà delle affiliazioni dei clan i cui confini restano imprecise e modificabili, si giustapporranno le considerazioni di cittadinanza, propria delle forme statali tradizionali instaurate dai conquistatori occidentali. La coesistenza e contrapposizione di questi due concetti – clan-tribù e nuovi Stati – all’interno di una stessa regione sono all’origine dei sentimenti che condizionano oggi lo status bellico tra i Paesi del Corno d’Africa.
Secondo il diritto internazionale, lo Stato nazione è un entità caratterizzata dalla presenza di una popolazione permanente, da una delimitazione territoriale ben precisa, dall’esistenza di un Governo che delinea i diritti-doveri tra Stato e individui e dalla sua capacità di mantenere le relazioni con altri governi, rispettando sempre i suoi impegni internazionali. Tutto ciò non succede nel Corno d’Africa o, quanto meno, si sviluppa solo in parte, fondamentalmente per questi motivi:
- Escludendo le grandi città, il criterio della popolazione permanente non può essere applicata in una realtà di nomadismo in continuo spostamento da una frontiera all’altra.
- Le frontiere – ben definite sulla carta – non corrispondono alla realtà. I popoli che abitano la zona considerano queste frontiere artificiali e gli Stati che le definiscono sono in realtà enti astratti senza nessun rapporto con il territorio dei loro padri. Nessuna frontiera nel Corno d’Africa corrisponde oggi ad un limes culturale o geografico chiaramente definito. Un esempio sono i Somali che vivono nella regione dell’Ogaden (Etiopia) o tra il Sud di Gibuti e il Nord del Kenya.
- I governi – anche se riconosciuti a livello internazionale – sono spesso difensori dei clan di appartenenza, e spesso i diritti vengono parzialmente riconosciuti agli altri cittadini non appartenenti al clan al potere pur essendo anch’essi cittadini di quel Stato.
- Le relazioni tra gli stati del Corno d’Africa sono spesso caratterizzate da belligeranza. Le frontiere non ben definite dai tempi della colonizzazione producono oggi continue rivendicazioni. La crisi tra Etiopia ed Eritrea di alcune settimane va vista in questa ottica. Ma anche le continue diatribe tra Eritrea – Gibuti e Etiopia- Somalia seguono lo stesso mainframe.
Tornando quindi alla Somalia, il punto di rottura lo si ebbe quando si decise di sacrificare l’assetto tradizionale eretto dal sistema tribale nel momento dell’arrivo dei primi coloni e successivamente con la promessa della costruzione di una “Grande Somalia“, che avrebbe dovuto avere lo scopo di unire tutti i territori abitati dal popolo Somalo. Nel 1969 quando il Generale Siad Barre arrivò al potere, decise di introdurre un sistema di governo centralizzato, a discapito della complessa distribuzione territoriale dei vari clan, favorendo il proprio. Tra la fine degli anni ’70 e inizio ’80 la Somalia sprofonda in una vera lotta per il potere, che contrappose diversi gruppi tribali, una lotta che si tramuterà presto in una drammatica guerra civile che in qualche modo perdura ancora oggi.
Attualmente, lo Stato centrale somalo fatica a controllare il proprio territorio e deve confrontarsi da una parte con le costante minacce degli estremisti di al-Shabaab a Sud e dalle spinte secessioniste nel Centro-Nord. Il fallimento dello Stato somalo potrebbe senza dubbio essere attribuito al clanismo incallito e intrinsecamente incompatibile con il modello di Stato importato dai colonizzatori. Il progetto coloniale ha cancellato senza però abolire del tutto le configurazioni politiche e le identità pre-esistenti, bensì ha creato più divisioni e affiliazioni favorendo di volta in volta gli uni o gli altri, in base a calcoli politici.
[ecko_alert color=”orange”]Cos’è rimasto quindi della Somalia?[/ecko_alert]
In questo contesto caotico è nata la Somaliland autoproclamata indipendente nel 1991 che, nonostante fatichi a farsi ufficialmente riconoscere dalla comunità internazionale, vive oggi la sua 4 elezione democratica: questa entità politica ha saputo ricostruirsi all’interno dei limiti coloniali britannici raggruppando le federazioni dei clan Issa e Isak, facendo coabitare nello stesso parlamento vecchie consuetudini a leggi moderne.
Potremmo aspettarci che altre province inizino a condividere questa stessa strategia, come per esempio il Puntland creato nel 1988 per isolarsi dalla guerra civile, o ancora il Jubbaland, la parte più meridionale dello Stato somalo. Si potrebbe quindi forse parlare di una balcanizzazione della Somalia in base ai confini dei clan per risolvere una volta per tutte il problemi di questo paese? Di sicuro questa non è la soluzione che si augura l’Unione Africana, poiché riconoscerli significherebbe incoraggiare le pretese dei movimenti separatisti in tutta la zona – se non in tutto il continente – che potrebbero far sprofondare tutta la regione nel caos. In questo panorama Mogadiscio – sede del governo centrale e capitale della Somalia – vive in perenne stato di guerra.
Certo è che le difficoltà della Somalia indipendente hanno ampliato la frattura identitaria e territoriale ereditata dalla colonizzazione. Il crollo totale della dittatura, ingerenze straniere, guerre e carestie, hanno portato a screditare prima, e fare scoppiare dopo, il progetto della Grande Somalia: un esempio che ben chiarifica come per “fare uno Stato” non basti una omogenea comunità linguistica, storica, culturale e religiosa.