La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Adottata all’unanimità la risoluzione ONU che stabilisce il processo politico per porre fine alla guerra in Siria: nessuna menzione sul futuro di Assad, il cui regime resterà però in piedi, e ancora forti divergenze sulla lista delle organizzazioni terroristiche.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi il 18 dicembre a New York nell’ambito del terzo round dei colloqui di pace sulla Siria, ha approvato all’unanimità una risoluzione che delinea la road map, ossia il piano internazionale del processo di pace.
La risoluzione S/RES/2254 ufficializza quanto già stabilito dai colloqui di Vienna, ossia negoziati tra governo siriano e opposizione all’inizio di gennaio sulla base del Comunicato di Ginevra del 2012, governo di transizione, nuova Costituzione, nuove elezioni e un cessate il fuoco nazionale. A questo proposito, la risoluzione prevede che il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon esponga al Consiglio di Sicurezza, entro un mese, le opzioni per implementare un meccanismo di monitoraggio, verifica e aggiornamento che possa garantire l’effettivo rispetto del cessate il fuoco. La risoluzione accoglie inoltre con favore gli sforzi della Giordania nel determinare la lista dei gruppi terroristi che saranno esclusi dal cessate il fuoco. La lista non è ancora definitiva, ma quella preliminare sembrerebbe racchiudere, secondo fonti russe, circa 160 gruppi dell’opposizione siriana, dai gruppi islamisti come Ahrar al-Sham a quelli più secolari affiliati all’FSA; approvare la lista definitiva sarà una delle difficoltà maggiori, date le divergenze tra i Paesi coinvolti (soprattutto USA e Russia) nella definizione di “terrorista”.
La risoluzione esorta tutte le parti a cessare immediatamente attacchi contro civili e strutture sanitarie, nonché l’impiego indiscriminato di armi, a garantire l’accesso incondizionato di aiuti umanitari e a scarcerare i detenuti politici; la risoluzione di fatto accoglie le richieste dell’opposizione siriana che, dopo essersi riunita alla Conferenza di Riyad, ha nominato come rappresentante del team che negozierà con il governo siriano l’ex Primo Ministro siriano Riad Hijab, che si dimise nel 2012 in protesta per la violenta repressione governativa delle manifestazioni di piazza, passando così all’opposizione. Il Presidente Assad ha però già dichiarato di non riconoscere l’opposizione della Conferenza di Riyad come legittimo interlocutore.
Il nodo centrale che la risoluzione non scioglie resta quello del futuro politico del Presidente Assad: l’opposizione siriana pretende che il leader di Damasco lasci il potere all’inizio della transizione politica, ma questa richiesta ha già incontrato l’opposizione non solo delle potenze a lui vicine, ma anche di chi per anni ha invocato le dimissioni di Assad, nello specifico gli Stati Uniti, che dopo aver elogiato il contributo russo nella risoluzione del conflitto siriano hanno anche ammesso che la caduta di Assad non solo non è una priorità, ma è anche un “non-inizio”, quindi inaccettabile per l’avvio delle trattative. A seguito dell’incontro con il Presidente russo Putin e con il Ministro degli Affari Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca il 15 dicembre, il Segretario di Stato USA John Kerry ha dichiarato:
“Gli Stati Uniti e i nostri partner non cercano il cosiddetto cambio di regime, come è noto, in Siria. [..] Non ci siamo concentrati su ciò che può essere fatto o non fatto immediatamente riguardo Assad, ma su un processo [politico] nel quale i siriani decideranno il futuro della Siria. Ma noi crediamo che nessuno dovrebbe essere costretto a scegliere tra un dittatore e i terroristi. La nostra sfida rimane quella di creare le condizioni dalle quali possa emergere un’alternativa.”
La posizione americana ha subito un evidente ammorbidimento nei confronti del governo siriano, tanto che alla conferenza stampa Kerry ha dichiarato, parlando della richiesta dell’opposizione siriana di dimissioni per Assad all’inizio della transizione politica:
“Quella non è la posizione dell’International Syria Support Group [ndr: il gruppo di contatto composto da 17 Paesi che supervisionerà e sosterrà la transizione politica], non è la base del comunicato di Ginevra né della risoluzione ONU e siamo stati rassicurati dai rappresentanti dell’International Syria Support Group che hanno partecipato alla Conferenza di Riyad, ospitandola, che non è infatti la posizione di partenza, perchè è una posizione di non partenza”.
Lo stesso Ban Ki-Moon ha dichiarato:
“Credo che sia inaccettabile che la crisi siriana e la sua soluzione debba dipendere dal destino di un uomo. [..] Spetta al popolo siriano, la decisione del futuro del Presidente Assad”.
Dichiarazione che stride con la posizione che Ban Ki-Moon ha sostenuto sin dall’inizio. Nel giugno 2012 dichiarava all’Assemblea Generale dell’ONU:
“Da molti mesi è evidente che il Presidente Assad e il suo governo hanno perso ogni legittimità. Il recente massacro di Al-Hula ha portato questa realtà sotto gli occhi di tutti. Uomini, donne, anche bambini, sono stati giustiziati con spari a distanza ravvicinata; alcuni avevano le gole tagliate o i crani schiacciati. La scia di sangue conduce ai responsabili. Qualsiasi regime o leader che tollera tali uccisioni di innocenti ha perso la sua umanità fondamentale.”
Non si può non rilevare, infatti, che è proprio il ruolo di Assad (e del suo regime) il motivo originario per cui c’è una guerra in Siria, dato che nel 2011 milioni di siriani si espressero chiaramente circa il suo futuro, chiedendone a gran voce le dimissioni, solo per incontrare una feroce repressione militare. Il recente rapporto di Human Rights Watch intitolato “Se i morti potessero parlare“, che ha autenticato per la seconda volta le foto dei morti sotto tortura nelle carceri siriane (11,000 in tutto, in gran parte civili, tra cui anche donne e bambini), è solo l’ultimo di una lunga serie di prove incontrovertibili delle responsabilità del governo siriano nell’attuale conflitto. L’insistenza dunque sulle dimissioni del Presidente da parte dell’opposizione siriana non è un capriccio, ma la chiave di tutto e molti siriani ritengono che sia inaccettabile tenere al governo un regime con le mani sporche di sangue. Infatti, se i colloqui stanno generando ottimismo tra i Paesi coinvolti, un pò meno tra i siriani, soprattutto perchè vengono ignorate le responsabilità per crimini di guerra e contro l’umanità (di tutte le parti coinvolte). Ad esempio, il Local Coordination Committees (LCC), una rete di comitati locali siriani che costituisce una delle realtà della società civile siriana più radicate e rappresentative sul territorio, ha risposto duramente alla risoluzione ONU approvata, denunciandone la miopia nell’ignorare le responsabilità del governo siriano e i sacrifici di quella parte di popolo siriano che ha tentato, pacificamente, di porre fine a oltre 40 anni di dittatura. Inoltre nel loro comunicato si legge, senza mezzi termini:
“La risoluzione del Consiglio di sicurezza è il risultato della guerra per procura che la comunità internazionale e le potenze regionali stanno combattendo in Siria.”
Costringere al tavolo delle trattative governo siriano e opposizione appare necessario, anche alla luce del fatto che nessuna delle parti in campo è riuscita a garantirsi una definitiva vittoria militare, per cui la soluzione politica riappare come l’unica possibile. Tuttavia, pretendere di farlo mettendo allo stesso tavolo vittime e carnefici, senza fare giustizia e senza offrire garanzie alle parti coinvolte, renderà la pace ancora più difficile da raggiungere.
di Samantha Falciatori