Dalla sua deposizione a seguito della Primavera Araba nel 2011, l’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha giocato un gioco pericoloso, fatto di opportunismo e doppi giochi, che alla fine gli è costato la vita. Cosa implica la sua uccisione per il conflitto in corso e perché è stato ucciso?
Il conflitto in Yemen, che insanguina il paese più povero della penisola arabica dal 2015, ha subito un’accelerazione nei giorni scorsi a causa del cambio di schieramento dell’ex presidente Saleh e della sua conseguente uccisione da parte degli ex alleati Houti; un gioco di potere che gli è costato la vita e che è iniziato dopo la sua deposizione, nel 2011.
Breve ripasso
Il presidente sunnita Saleh era al potere da 34 anni e godeva del sostegno dell’Arabia Saudita, che vedeva in lui un alleato in un paese in cui metà della popolazione è sciita. Fu a causa della repressione delle manifestazioni di piazza e delle centinaia di morti civili a spingere la comunità internazionale a raggiungere un accordo per evitare la guerra: il Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’Onu permisero a Saleh restare in Yemen con l’immunità in cambio delle improrogabili dimissioni.
La presidenza passò al vice di Saleh, Abd Rabbo Mansur Hadi, che formò un nuovo governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Da allora Saleh ha cercato di riconquistare il potere, fondando un partito, organizzando le forze militari a lui fedeli e anche alleandosi con i ribelli sciiti Houti – contro cui durante i 34 anni di presidenza aveva combattuto più volte – per rovesciare il governo Hadi.
Nel 2014 gli Houti e le forze di Saleh hanno conquistato la capitale Sana’a, costringendo Hadi a fuggire prima ad Aden e poi in Arabia Saudita, dove ancora oggi è in esilio. Nel 2015, in risposta a questa avanzata, l’Arabia Saudita ha lanciato le operazioni militari per sostenere il governo di Hadi e fermare l’espansione degli Houti e quindi dell’Iran.
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Le cose sono cambiate la settimana scorsa, quando Saleh ha annunciato un radicale cambio di posizione. In un discorso televisivo del 2 dicembre ha aperto al dialogo con la Coalizione a guida saudita facendo appello affinché “metta fine all’aggressione, interrompa l’assedio, apra gli aeroporti e consenta l’accesso degli aiuti umanitari e il soccorso dei feriti, e noi volteremo pagina in virtù dei nostri rapporti di buon vicinato”.
Il riferimento era al blocco navale, aereo e terrestre, che la Coalizione a guida saudita ha imposto il mese scorso allo Yemen a seguito del lancio di un missile balistico da parte degli Houti contro Riyad. Il missile era stato abbattuto vicino all’aeroporto senza causare vittime, ma aveva scatenato la reazione saudita.
Facendo dunque leva su motivazioni umanitarie, Saleh aveva di fatto rotto l’alleanza con gli Houti, i quali avevano denunciato il suo discorso come un “colpo di Stato” contro la loro alleanza, anche se in realtà erano giorni che le forze di Saleh avevano iniziato a combattere gli Houti a Sana’a.
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La Coalizione araba aveva accolto con favore l’offerta di Saleh di avviare dei colloqui, dicendo che la sua decisione di schierarsi con loro avrebbe “liberato lo Yemen dalla milizie leali all’Iran”.
I motivi di questo voltafaccia potrebbero essere stati dovuti non tanto alla disastrosa crisi umanitaria, quanto a un calcolo politico. Le impacciate operazioni militari saudite non sono mai state risolutive, ed hanno impantanato la Coalizione in un conflitto in cui nessuna delle parti riesce a raggiungere una vittoria militare. L’ex presidente, offrendo dialogo e la fine del sostegno agli Houti – che Riyad considera ingerenze iraniane ostili – sperava forse di ottenere qualcosa in cambio, magari un ruolo nel futuro governo.
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Difficile sapere con certezza quali fossero le reali intenzioni di Saleh, ma un fatto è certo: il tentativo gli è costato la vita. L’intensificarsi degli scontri tra i suoi uomini e gli Houti è culminato il 4 dicembre, quando i secondi hanno attaccato l’abitazione di Saleh a Sana’a, uccidendolo mentre tentava di scappare in auto. Il colpo mortale sarebbe stato sparato da un cecchino Houti.
Non è chiaro come potrebbero evolvere gli eventi. Le forze di Saleh stanno perdendo terreno e, travolti dalla potenza degli Houti, potrebbero dissolversi, riunendosi agli Houti o alle forze del governo Hadi o semplicemente disertando.
L’Arabia Saudita non ha alcuna intenzione di inviare truppe di terra in Yemen, e dopo anni di inefficaci operazioni aeree è chiaro che le risorse messe in campo dalla casa reale saudia non sono sufficienti per avere la meglio in un conflitto che sta diventando una spina nel fianco per il principe Mohammed bin Salman, e che dimostra la forza che è invece capace di proiettare l’Iran.
Non va dimenticato, poi, che in Yemen è anche presente al-Qaida della Penisola Arabica (AQAP), il gruppo responsabile dell’attentato a Charlie Hebdo nel 2015, oltre ad alcune unità affiliate a ISIS.
In Yemen c’è anche una delle più gravi crisi umanitarie del secolo, insieme a quelle in Siria e Congo, con oltre 10.000 vittime, 10 milioni di sfollati su un totale di 27 milioni di abitanti, oltre 2 milioni di bambini malnutriti, un forte rischio carestia e una diffusa epidemia di colera che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha colpito 500.000 persone.
L’Inviato speciale ONU per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, durante un briefing al Consiglio di Sicurezza ha espresso il timore che l’uccisione di Saleh “costituirà un notevole cambiamento nelle dinamiche politiche in Yemen” e che “le crescenti ostilità minacceranno ulteriormente le vite dei civili”, sottolineando che ora più che mai c’è bisogno di una soluzione negoziale, e non militare, al conflitto. Soluzione che però sembra ancora lontana.
di Samantha Falciatori